Sette, 22 gennaio 2016
Troppo grandi per finire in prigione. Così dalla Bank of America alla Apple, le grandi aziende sono pronte a pagare maximulte pur di evitare processi
«Too big to fail», troppo grandi per fallire, sta diventando anche «too big to jail», troppo grandi per finire (simbolicamente) in galera: inizia a essere vero pure in Italia per le grandi corporation, proprio come oltreoceano, dove dal 2001 al 2014 Brandon Garret, ricercatore della Virginia law school, in un libro ha contato 303 accordi tra aziende e giustizia americana per barattare con maximulte la non belligeranza processuale.
Bank of America, pur scesa a patti nel pagare l’enormità di 16,6 miliardi di dollari per uscire quasi indenne dallo scandalo della manipolazione dei tassi sui mutui, è come Jp Morgan che ne ha sborsati altri 13, o come la francese Bnp che in Usa ha patteggiato 9 miliardi di multa per violazione dell’embargo in alcuni Paesi, o come Credit Suisse salassata per 2,5 miliardi, Ubs anni fa per 780 milioni, ora Julius Baer per 570 milioni e via contando: eppure tutti questi colossi del credito fanno palate di profitti come e persino più di prima, quasi che il peso dei rispettivi accordi di non procedibilità somigli soltanto a uno dei tanti costi di produzione da mettere a bilancio. Al punto che l’agenzia Moody’s, in dicembre, ha calcolato che i big del credito mondiale abbiano complessivamente ammortizzato qualcosa come 219 miliardi di dollari di multe o sanzioni.
Anche in Italia, nei contenziosi fiscali intentati dall’Agenzia delle entrate con la robusta “sponda” delle procure, cominciano a moltiplicarsi soluzioni con le quali le corporation depotenziano i rischi tributari e penali di passate condotte illecite in cambio di negoziate adesioni a grossi versamenti di denaro. E persino i sociologi li valutano in maniera opposta. «Dobbiamo ai pm milanesi Francesco Greco e Adriano Scudieri», scrive Domenico De Masi su InPiù, «se i sotterfugi della Apple ai danni del fisco italiano sono stati almeno in parte rintuzzati recuperando all’erario 318 milioni di euro: queste vittorie di Davide contro Golia debbbono inorgoglirci perché sono le prime in Europa rispetto alle mega-elusioni fiscali delle multinazionali». Ma un altro sociologo docente a Stanford, il bielorusso Evgeny Morozov, partendo dal fatto che l’iniziale contestazione fosse stata di 880 milioni, conclude che «all’Italia serviva una vittima di alto profilo per mostrare la propria serietà nella lotta all’evasione», ma che «chi ha davvero il potere si è mostrata Apple, che ha pagato allo Stato molto meno di quanto dovesse». E del resto lo stesso è successo pochi giorni fa con la multinazionale del gioco PokerStars che, a fronte di una contestazione di 85 milioni evasi, ha “chiuso” con l’Agenzia delle Entrate a 6 milioni.
RIDUZIONE DEL DANNO. L’abbraccio di reciproche forze e debolezze dietro queste intese (analoghe anni fa a una da 300 milioni tra Agenzia delle entrate e Bosch, i cui manager furono poi paradossalmente assolti nel giudizio penale) è intuibile: da un lato lo Stato fa cassa perché Fisco e procure portano a casa un corposo risultato immediato invece di dover affrontare contenziosi tributari estenuanti e processi penali imprevedibili per l’insidiosità della cornice normativa; dall’altro le corporation praticano su larga scala una riduzione del danno nel mutato contesto internazionale, e magari riescono pure a rifarsi una verginità d’immagine.
Ma, sotto la buccia degli aspetti quantitativi, variamente soppesabili, c’è la polpa di una metamorfosi qualitativa colta da una ricerca di Rosa Anna Ruggiero presso la Brooklyn law school di New York sull’esperienza statunitense: e soprattutto sul fatto che, laddove avanza la «giustizia negoziata», lo Stato «non si limita a fare l’arbitro», ma, attraverso le agenzie fiscali o gli uffici giudiziari, «utilizza la minaccia del processo come mezzo per attuare certe scelte di carattere politico e, in ultima analisi, anche di tipo economico». E in questa «torsione delle funzioni» la giustizia non interviene più solo a proteggere l’ordine precostituito, «ma seleziona le condotte che le imprese devono tenere nel mercato e le promuove per mezzo della minaccia del processo». Utile? Improprio? Comunque la si valuti, è questa sorta di mutazione genetica del processo l’altra faccia del «too big to jail».