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 2016  gennaio 22 Venerdì calendario

Alla riscoperta delle opere brutte di Verdi

Bruttine e stagionate, sottovalutate e irrise. Da dimenticare e quindi dimenticate. Una manciata di opere giovanili classificate «minori», che sembravano destinate a languire tra la polvere degli archivi. Invece, ecco che le «opere brutte» di Giuseppe Verdi (così le definì un musicologo autorevole quale Massimo Mila) stanno prendendosi la loro rivincita. 
E da Cenerentole della lirica si trasformano in principesse grazie alla bacchetta magica di alcuni direttori decisi a spingersi oltre i luoghi comuni. Primo tra tutti Riccardo Chailly. Che, sfidando sospetti e mugugni, ha aperto la Scala in controtendenza con Giovanna d’Arco, che al Piermarini si era data una sola volta, 170 anni fa. E poi più. 
Scommessa audace, vinta a furor di applausi, destinata a fare scuola. Prossimamente sulla scena lirica italiana (e non solo) sarà un gran fiorire di rare opere verdiane. Prime in arrivo, Stiffelio, stasera alla Fenice di Venezia, regia di Johannes Weigand, e Attila, domani al Comunale di Bologna, regia di Daniele Abbado. E a febbraio la Scala presenta la nuova edizione di Alvis Hermanis de I due Foscari, mentre Luisa Miller, appena proposta al Comunale di Ferrara, a marzo arriverà al Verdi di Trieste. Ma anche all’estero il giovane Verdi sembra conquistare terreno. Il 31 gennaio a Bonn va in scena Jerusalem, il 18 febbraio a Francoforte l’ Oberto, conte di San Bonifacio, esordio lirico del maestro di Busseto. 
«Verdi è sempre una scuola di vita, nelle sue prime opere c’è già tutto – assicura Daniele Rustioni, 32 anni, già sul podio della Fenice per i giovanili Masnadieri e ora con Stiffelio —. Questi primi titoli sono interessanti sia perché pongono l’accento sull’aspetto vocale, sia per il forte tratto drammaturgico. Verdi qui si fa le ossa per i suoi futuri grandi personaggi. E con Stiffelio, sedicesima opera del catalogo, l’ultima da ascrivere in questa prima fase, affronta per la prima volta una storia “moderna”. Come farà poi con Traviata, le uniche due opere “borghesi”, a lui contemporanee. Per questo destinate a dare scandalo». Stiffelio infatti parla di un sacerdote sposato, tradito, pronto al divorzio. «Temi rivoluzionari, pur se in ambito protestante. Tant’è che la censura si accanì. Alla prima di Trieste, nel 1850, subì tagli pesanti che indussero Verdi a camuffarlo poi in Aroldo, trasferendo l’azione all’epoca delle Crociate e trasformando il prete in un innocuo cavaliere». 
Musicalmente parlando, tra i punti forti di Stiffelio, Rustioni sottolinea il finale: «Con l’intervento dell’organo e la preghiera “a cappella”, a far da sfondo all’assoluzione dal pulpito della fedifraga. Ma se il sacerdote perdona, l’uomo chissà…». Non basta. Rustioni, dal prossimo anno direttore dell’Opéra di Lione, vi proporrà proprio la riscoperta del giovane Verdi: «Tre titoli in tre stagioni, Ernani, Attila, Due Foscari». 
Quanto all’ Attila di Bologna, vedrà sul podio Michele Mariotti, 36 anni. «Il giovane Verdi è un vulcano di idee musicali, si stenta a stargli dietro – sostiene —. La divisione tra opere belle e brutte è assurda, l’interessante è capire l’evoluzione, in costante sviluppo, di Verdi. Conoscere i suoi primi passi è quindi utilissimo». Riletto da Verdi, il «flagello di Dio» si svela un uomo solo, oppresso dal suo potere. Proprio come il doge de I due Foscari. Mariotti, che a febbraio li dirigerà alla Scala, sottolinea quel tratto. «In quel doge tormentato Verdi preannuncia Boccanegra ma anche Filippo II di Don Carlo. Figure tragiche, costrette dal loro ruolo a rinunciare agli affetti». 
«Nei prossimi anni proporrò altre opere per nulla “minori” come Alzira e Stiffelio» ha ribadito Chailly dopo la prima di Giovanna. Le opere brutte si rivelano così sempre più belle. Smentendo il luogo comune che quelle uscite dal repertorio se lo siano in qualche modo meritate.