Corriere della Sera, 22 gennaio 2016
Litvinenko, cronaca di una morte voluta da Putin, probabilmente. Le accuse di Londra
Un rapporto di 328 pagine che mette in crisi le relazioni fra Regno Unito e Russia. La conclusione è un’accusa pesantissima: «Prendendo in considerazione tutte le prove e le analisi rese disponibili, reputo che l’operazione del Fsb per uccidere il signor Litvinenko fu probabilmente approvata dal signor Patrushev (ex capo del servizio segreto russo dal 1999 al 2008, ndr) e anche dal presidente Putin». Un delitto ordinato dallo Stato, l’ha definito il premier Cameron.
La firma del rapporto è di sir Robert Owen che ha presieduto la commissione d’inchiesta sull’avvelenamento col polonio 210 di Alexander Litvinenko, avvenuto il primo novembre 2006 al Millennium Hotel a Londra. Ex agente del controspionaggio russo, scappato a Londra nel 2000, entrato nella cerchia degli oppositori a Putin e della dissidenza cecena, in contatto con la giornalista Olga Politkovskaya (uccisa pure lei), Litvinenko stava collaborando con gli 007 britannici e spagnoli. Lo hanno eliminato perché a conoscenza delle trame di corruzione fra mafia russa e alti vertici dello Stato e per dare «un segnale» a chi era considerato un nemico di Putin e della sua cerchia.
Due killer: Andrei Lugovoj e Dmitri Kovtun. Uno agente dei servizi segreti. L’altro ex militare. Lugovoj oggi parlamentare alla Duma e premiato come eroe da Putin. Due i mandanti: l’ex direttore del Fsb (erede del Kgb) e soprattutto lo stesso Vladimir Putin. «Certe operazioni non si fanno senza l’approvazione dall’alto» sottolinea Robert Owen.
Fra Londra e Mosca torna la guerra fredda ma non si profila la rottura diplomatica. Il ministero degli Esteri britannico, il Foreign Office, convoca l’ambasciatore Alexander Yakovenko e parla di «indifferenza alla leggi internazionali» da parte russa. «Ciò complicherà le relazioni». Invita Mosca a collaborare «per l’estradizione di Lugovoj» e di assicurare «che simili crimini non siano più commessi». Downing Street rimarca che «un certo tipo di relazione con loro (con la Russia) deve proseguire a causa della crisi siriana, ma ci comporteremo con occhio attento e cuore molto freddo».
Parole che tentano di evitare l’effetto valanga, nonostante la vedova e il figlio di Litvinenko chiedano «sanzioni contro Mosca». Marina Litvinenko si dice «felice» per le conclusioni dell’inchiesta e dell’avvenuto riconoscimento di Putin quale mandante. E insiste affinché siano espulse le spie al servizio del capo di Stato russo. Ma la complicata situazione internazionale impone prudenza, aldilà di ogni protesta ufficiale.
Anche da Mosca si frena. Si proclama innocente, uno dei due killer indicati nel rapporto, Dmitri Kovtun. Il ministero degli Esteri lamenta «la politicizzazione dell’inchiesta» e evidenzia come la gestione di «un caso criminale porti ombre nelle relazioni bilaterali». Putin tace. Interviene un portavoce del Cremlino: «La risposta arriverà attraverso i canali diplomatici». E aggiunge: «Questo rapporto avvelena i nostri rapporti con Londra». Un verbo, avvelena, che suona molto male. La crisi c’è ma nessuno ha voglia di strappi.
Omicidio sotto gli occhi distratti della Cia. Il primo novembre 2006 alle 15.59 le telecamere a circuito chiuso del Millennium Hotel a Mayfair, a pochi passi dall’ambasciata statunitense, riprendono Andrei Lugovoj e Dmitri Kovtun all’interno dell’albergo. Occupano due delle 48 camere. Al quarto piano, ha scritto pochi giorni fa il Guardian senza ricevere smentita, gli «spifferi» suggeriscono che ci sia una «stazione» permanente dell’intelligence americana. Una tragica beffa.
È in questo teatro, al Pine Bar del Millennium, che Alexander Litvinenko, ex agente dei servizi russi, dissidente fuggito nel 2000 nel Regno Unito, viene ammazzato col veleno radioattivo, il polonio 210 proveniente dal sito nucleare Avangard della citta russa Sarov, versato nella teiera e nella tazza sul tavolo dove ha da poco incontrato Lugovoj e Kovtun, i sicari inviati da Mosca. Il pretesto della riunione è una collaborazione d’affari.
Che Andrei Lugovoj e Dmitri Kovtun siano gli esecutori, spiega il rapporto della commissione presieduta da Robert Owen, non vi è dubbio alcuno. Il primo è arrivato a Londra con la moglie e i tre figli: ufficialmente per assistere alla partita di Champions League Arsenal-Cska Mosca. Il secondo, suo amico d’infanzia, con un volo da Amburgo. Lugovoj è alle dipendenze del Fsb, il controspionaggio russo. Kovtun è un ex militare, finto esule in Germania, rientrato in patria. Hanno una storia alle spalle costruita ad arte, argomenta sir Robert Owen, per nascondere la loro vera identità: Lugovoj nel curriculum ha un capitoletto con un finto arresto a Mosca e Kovtun addirittura la defezione dall’esercito. Se fosse stato vero sarebbe finito alla corte marziale. Invece va avanti e indietro da Mosca.
Le telecamere, le prenotazioni, i voli. Tutto combacia. Nella camera 382, occupata al Millennium da Kovtun, saranno rinvenute cospicue tracce del veleno. Così pure sulle poltrone del Pine Bar.
E poi ci sono la confessione della suocera di Kovtun, Eleonora Wall («Mi disse che aveva lui il polonio per uccidere Litvinenko»), e di un teste il cui nome resta coperto («Kovtun mi confidò che doveva essere un monito per i dissidenti»). Le prove per la commissione d’inchiesta sono evidenti. «Sono sicuro che lo hanno eliminato su ordine di altri» mette nero su bianco sir Robert Owen. Il problema è stabilire per conto di chi hanno operato. La conclusione, nel rapporto, è chiara: «Probabilmente» i mandanti sono Nikolay Patrushev, attuale segretario del consiglio di sicurezza russo nonché ex capo dei servizi segreti dal 1999 al 2008, e Vladimir Putin. Il ragionamento si basa su alcuni dati di fatto e su considerazioni logiche.
Innanzitutto il movente. Alexander Litvinenko era un ufficiale del Fsb russo che, scappato a Londra nel 2000, era entrato in contatto con i dissidenti, poi con Anna Politkovskaya, la giornalista uccisa il 7 ottobre 2006 (guarda caso) pochi giorni prima dell’avvelenamento al Millennium e con la quale si era incontrato più volte, infine con gli oppositori ceceni (Litvinenko si era convertito all’Islam, è notato nel rapporto). Per un sito web ceceno aveva scritto un articolo rivelando la presenza negli archivi dei servizi segreti di Mosca di un videotape comprovante la pedofilia di Putin. Litvinenko, inoltre, conosceva le trame della corruzione ai più alti livelli dello Stato e dal 2004 riceveva dall’intelligence britannico 2 mila sterline mensili per la sua collaborazione. Aveva anche parlato con i servizi spagnoli e aveva offerto una deposizione alla commissione parlamentare italiana Mitrokhin. Dunque, sottolinea Robert Owen, «esistevano forti motivi per organizzazioni e individui all’interno dello Stato russo di agire contro Litvinenko».
Poste le premesse sul movente, i passaggi che portano a Putin hanno come cornice un assunto: certo omicidi non si commettono all’estero senza il via libera esplicito dall’alto. La commissione ha interrogato diversi esperti di storia russa e un ex agente del Kgb, Yuri Shvets, riparato negli Stati Uniti nel 1993. «Nessuno nella gerarchia russa inizierebbe un’azione simile senza coprirsi le spalle» ha indicato Shvets. Il professor Robert Service (insegna a Oxford) ha confermato: «Putin in persona approvò e il capo del Fsb Patrushev sapeva di avere il supporto del presidente». La logica. Ma non c’è la carta, a onore del vero, che documenti il loro diretto coinvolgimento.
Esistono però tre circostanze. Strane. Proprio nel 2006, prima dell’avvelenamento al Millennium, Putin ottenne la modifica delle leggi antiterrorismo con il via libera alla eliminazione di chi cospira contro lo Stato. Il 24 novembre 2006 in un dibattito alla Duma il parlamentare Sergey Abeltsev commentò l’omicidio: «La meritata punizione per un traditore». E Putin scherzò: «La gente che ha fatto ciò non è Dio e il signor Litvinenko sfortunatamente non è Lazzaro». Poi accolse in patria i due killer. Lugovoj fu promosso deputato e ricevette la massima onorificenza di Stato. E Kovtun perdonato per la «diserzione». La finta diserzione. Solo un caso? Un delitto di Stato per sir Robert Owen. Forse nel covo della Cia.