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 2016  gennaio 21 Giovedì calendario

Nella sfida tra i due Feltri su Mani Pulite ha vinto il figlio per k.o.

Sabato scorso abbiamo recensito Novantatré, un libro di Mattia Feltri che raccoglie un’inchiesta che pubblicò sul Foglio più di dieci anni fa. Il libro ci è piaciuto e infatti l’abbiamo scritto, mentre ad altri ovviamente può essere piaciuto meno: quello che era difficile aspettarsi era che Mattia Feltri ricevesse una stroncatura proprio dal padre Vittorio.
È successo sul Giornale di martedì e la disputa in sé ci interessa poco (anche a loro, se è vero che i Feltri hanno rifiutato dei confronti televisivi) perché in realtà ci interessa soffermarci su un preciso rimprovero paterno: Mattia, a dire del padre, nel suo libro avrebbe trascurato «furti su furti, per decenni impuniti» da parte dei politici che «spendevano e spandevano senza requie» e per questo «il debito pubblico impazziva e ne soffriamo ancora gli effetti devastanti». Questo ha scritto Vittorio Feltri.
Ora: fuor di polemica, è ormai da anni che alla rivalutazione della Prima Repubblica si oppone questo ritornello semplificatorio: tangenti uguale debito pubblico uguale Paese allo sfascio. Un falso. A parte che il debito pubblico è salito molto di più nella Seconda Repubblica (e, spiace dirlo, con un contributo decisivo dei governi di centrodestra) la risposta migliore l’ha data lo stesso Mattia Feltri sulla Stampa di ieri: «Anche mio padre fa risalire il debito pubblico anzitutto alle tangenti, quando invece è stato contratto per garantire un colossale assistenzialismo fatto di welfare e pubblico impiego, per sopportare l’assenteismo degli statali e l’evasione fiscale degli autonomi: chi viveva e continua a vivere al di sopra delle proprie possibilità è un Paese intero... la malattia sono gli italiani».
E si potrebbe anche chiuderla qui, perché in effetti è la storia di questo Paese: sono stati i partiti del Dopoguerra a costruire un consenso sui cosiddetti «collaterali», i coltivatori diretti, gli artigiani, i sindacati scolastici, le cooperative bianche, le corporazioni, le categorie, le piccole tribù; il tutto usando il carburante della spesa pubblica di cui lo Stato diveniva gigantesco erogatore. È con questi soldi – con questo debito pubblico, altro che tangenti – che hanno convissuto gli imprenditori sommersi e gli artigiani senza fattura, i supplenti che volevano entrare in ruolo e i lavoratori illicenziabili.
La grande erosione parte da qui, ma si è estesa a molti di noi, alla prassi di evadere il fisco almeno un po’, all’abitudine di pagare in nero una fetta delle vendite immobiliari, sino alla normalità della frase «vuole la fattura?». Tangentopoli è spiegabile in questi termini: il fiscalista, il commercialista, il certificatore di bilanci, l’impiegato comunale e regionale e statale, l’avvocato, il notaio, l’esercente, il barista, la colf, lo scontrino che non ti hanno dato o che tu non avevi chiesto: tutto questo ha tanti nomi, così come ce l’ha un’industria – piccola, anzi «media» – preoccupata solo di arrivare al pianerottolo più alto mentre la classe dirigente confindustriale procedeva per cooptazione e per corporazione.
Non è un caso che la fine dell’inchiesta Mani pulite sia coincisa con l’indagine sulla Guardia di Finanza: la cosiddetta inchiesta «Fiamme sporche» cominciò a confondere proscenio e platea, a disamorare da un’ubriacatura legalitaria che dapprima era parsa tuttavia così liberatoria, espiatoria, deresponsabilizzante. Poi non più. Lo ammise, a bocce ferme, anche l’ex procuratore capo Francesco Saverio Borrelli: «L’atteggiamento dell’opinione pubblica cominciò a cambiare... finché si trattò di colpire l’alta politica e i suoi rappresentanti, non ci furono grandi reazioni contrarie. Anzi. Ma, quando si andò oltre, apparve chiaro che il problema della corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma che investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso». Sicché Mani Pulite distrusse una classe politica, ma lasciò gli italiani col cerino acceso. Non si è ancora spento.