Corriere della Sera, 21 gennaio 2016
Nel tennis gran parte delle vincite si faceva con il palmare in mano, sedendo a bordo campo
«Siete italiani?» Purtroppo non possiamo negare l’evidenza. «Addetti ai lavori?». Giornalisti, ahinoi. «Anche noi siamo nell’ambiente». E cosa fate di bello? I tre connazionali seduti al tavolo in compagnia di un manager straniero che rappresentava alcuni giocatori di seconda fascia, ridacchiarono compiaciuti. «Lavoriamo nel betting». Al Roland Garros era stata una giornata da schifo. Pioggia, vento e freddo. Il ristorante, non distante da quelli presi di mira dagli attentatori del 13 novembre, aveva alle pareti vecchie fotografie di René Lacoste e degli altri moschettieri. A tutti gli effetti un posto da addetti ai lavori.
I tre italiani erano di mezza età, con provenienza geografica e accenti che rappresentavano equamente Nord, Sud e capitale. Il loro modo di guadagnarsi pane e companatico non doveva essere un gran segreto. Conoscevano quasi tutti gli avventori del locale. Erano scommettitori, professionisti nel vero senso del termine. «Seguo il circuito da oltre un decennio» disse il più maturo, che sembrava il capo del terzetto. «E quando dico seguo, intendo tutti i tornei dal vivo, in prima fila o quasi. Nel 2012 sono stato in giro per 25 settimane, manco fossi Federer».
Il tono di rimpianto lasciava intendere che i tempi erano cambiati. «Una volta» spiegava il secondo «gran parte delle vincite si faceva con il palmare in mano, sedendo a bordo campo. Si scommetteva sul singolo quindici, sfruttando quei pochi attimi che servivano al sistema per comunicare l’esito del punto. Stando sul posto noi e altri colleghi riuscivamo ad anticipare. Il giocatore tal dei tali sta andando a rete per chiudere uno smash? Piazzavi la puntata in tempo reale e 9 volte su 10 vincevi».
Negli ultimi anni persino l’Atp si è accorta del trucco. All’inizio si è limitata a proibire l’uso del palmare nei pressi del campo, ma la pacchia continuava. «Allora hanno fatto come i casinò, assumendo guardie private, addestrate da loro e stipendiate dai singoli tornei, incaricate di beccare i soliti noti e di cacciarli». I tre italiani raccontarono di uno stimato collega tedesco che a Kuala Lumpur si fece tre settimane di galera e venne poi cacciato dalla Malesia. «Ci siamo andati vicini anche noi» aggiunse il terzo, il più giovane. «Sul campo 12 a Shanghai, durante un primo turno eravamo quattro occidentali su 8 spettatori... Ci presero per le orecchie e ci portarono dritti in aeroporto».
Ma finché c’è tennis, c’è speranza. I punti erano solo una delle tante risorse. «Bisogna frequentare l’ambiente e ottenere informazioni, anche pagando. Quel giocatore che vuole andarsene, quell’altro che è infortunato e scende in campo al primo turno solo per salvare l’ingaggio. Se sei amico dei loro amici, ci puoi arrivare. E poi ci sono quelli che le partite se le giocano come noi, nessuno lo dice ma tutti lo sanno». I tornei Futures e Challenger, la Cayenna del tennis, servono a guadagnare «spiccioli», perché su partite di basso livello non ci possono essere grosse transazioni, danno troppo nell’occhio. «A un tennista che con una semifinale vince 3.000 euro magari non fa schifo mettersene in tasca ventimila, ma il nostro guadagno è relativo». Il colpo grosso, e ne bastano anche un paio all’anno, si fa con i tornei Atp di media importanza, dove tutto è più complicato ma non impossibile. A proposito, fu la nostra ultima domanda, come vanno gli affari? «Nonostante le difficoltà non ci lamentiamo» rispose il presunto capo. «Due anni fa ho superato i 400mila euro». Li salutammo, pagammo il conto e uscimmo, accompagnati dalla sensazione di aver sbagliato tutto nella vita.