21 gennaio 2016
Ancora in morte di Ettore Scola
Stefania Ulivi per il Corriere della Sera
Un saluto alla Casa del cinema «come fosse una festa». Era questa la volontà di Ettore Scola, scomparso martedì scorso, sceneggiatore e regista anche della sua uscita di scena. Oggi dalle 10.30 alle 18 sarà aperta la camera ardente, omaggio che riprenderà alle 10 di domani quando, dalle 15, inizieranno i ricordi di amici e colleghi, coordinati, in accordo con la famiglia, da Felice Laudadio. Saranno una decina, non di più. Oltre a Laudadio, Giuseppe Tornatore, Stefania Sandrelli, Walter Veltroni, Pierfrancesco Diliberto, Paolo Virzì, il critico Jean Gili.
Ieri la giornata è stata riservata al dolore privato della famiglia — che aveva custodito gelosamente l’intimità degli ultimi giorni — alla camera mortuaria del Policlinico Umberto I. A portare il saluto, in forma privata come moglie Gigliola e figlie Paola e Silvia avevano chiesto, sono arrivati oltre a Tornatore e Veltroni, Dario Franceschini, Fabio Mussi, Daniele Vicari, Carlo Degli Esposti.
Oggi comincia invece l’abbraccio collettivo di quanti, insieme a Paola e Silvia, si sentono orfani di Ettore. Scorreranno le sue foto e le immagini dei film, le musiche di Armando Trovajoli ne evocheranno lo spirito. Una festa, aveva chiesto il maestro che si faceva una risata quando qualcuno lo chiamava così. «Piangere si può fare anche da soli, ridere bisogna essere in due», mise in bocca a Mastroianni in Una giornata particolare . E sono, saranno, giornate particolari per chi non si capacita che proprio lui se ne sia andato. Ci scherzava lui stesso, un anno fa di questi tempo, salutando sempre alla Casa del cinema l’amico Francesco Rosi, esorcizzando le commemorazioni «sempre più frequenti per quelli della mia età». E non sarà facile per gli amici trovare le parole per schivare la retorica che non perdonerebbe.
«Vediamo ogni giorno in televisione gente che si stima molto. Se ognuno partisse dai propri limiti piuttosto che dalle proprie virtù credo che tutta l’Italia andrebbe meglio», diceva Scola a Pif nel documentario Ridendo e scherzando . Ritratto di un regista all’italiana scritto e diretto dalle figlie Paola e Silvia, prodotto da Carlo Degli Esposti. Presentato l’ottobre scorso alla Festa del cinema di Roma, avrebbe dovuto essere distribuito in maggio. Invece arriverà nelle sale (almeno in duecento ma potrebbero aumentare) il 1° e il 2 febbraio distribuito da Palomar con Raicinema e 01. Un «documentario da ridere» in cui le figlie hanno cercato mettere in pratica la sua ricetta: «parlare di cose serie senza farsene accorgere, facendo ridere». Lui ne parlava divertito. «L’ho guardato per vedere se c’erano gli estremi per portarle in tribunale ma in realtà sapevo che andavo sul sicuro con oro: hanno ereditato ironia e disistima». L’idea di raccontarsi al regista di La mafia uccide solo d’estate («I personaggi brutti, sporchi e cattivi, diversi, le sono cari», gli dice Pif e Scola rilancia: «Dunque anche te»), e di farlo in quel gioiellino che è il Cinema dei piccoli a Villa Borghese, a due passi dalla Casa del cinema, gli era piaciuta. Si racconta disegnatore, umorista, attivista oltre che cineasta. «Sono sempre stato un pigro per questo mi piaceva fare soprattutto lo sceneggiatore». Ricorda Brutti, sporchi e cattivi che da noi fu accusato di razzismo e a Cannes vinse il premio per la miglior regia.
E proprio l’ex delegato del festival Gilles Jacob ha guidato l’ondata di commozione in Francia. «Ettore Scola è morto. C’eravamo tanto amati. È venuto tanto spesso a Cannes. Mi sento infinitamente triste e orfano, come l’Italia» ha twittato. ««Con Scola se ne va una fetta del cinema italiano di tutti i tempi. Critico sulla società, innamorato dei suoi antieroi, sorridente». L’ex ministro Jack Lang gli ha fatto eco. «Era un amico di fedeltà assoluta. Quelli a cui voleva bene sapevano di poter sempre contare su di lui». Mentre su Twitter si diffondeva l’hashtag #NousNousSommesTantAimes .
«Se penso a Ettore Scola mi viene da ridere. Non fraintendetemi, ma non riesco ad avere un’immagine triste, la prima cosa che mi viene in mente è la sua risata, roca per via delle mille sigarette». Giancarlo Giannini ha recitato in due film di Scola: Dramma della gelosia e La cena.
Quando lo conobbe?
« Venne a trovarmi mentre recitavo a teatro, diretto da Francesco Rosi. Ero giovane. Andammo a cena, a tavola mi ritrovai tra questi due mostri del cinema, che erano molto diversi, rimasi affascinato dalla loro cultura. Dopo feci Romeo e Giuliettae nel 1970 mi offrì Dramma della gelosia».
Lei era quasi agli inizi.
«Avevo già preso parte a una decina di film, ma, sì, la mia carriera di attore è partita da lì. Il mio personaggio era il terzo incomodo tra Mastroianni e la Sandrelli, che si invaghiva di me. Interpretavo un pizzaiolo, Scola sapeva che avevo vissuto a Napoli e sosteneva ridendo che la pizza non l’avevano inventata lì ma in Toscana».
Com’era lavorare con lui?
«Era un gioco. Nelle scene drammatiche faceva i dispetti, mi tirava il mozzicone di sigaretta addosso per distrarmi, sul set era un giuggerellone. Gassman e Mastroianni adoravano recitare per lui».
E come uomo?
«Era schivo, non amava parlare di sé. Era paterno, burbero, malinconico e soprattutto molto ironico. Prendeva in giro gli altri e se stesso».
Vi siete frequentati?
«Abitava nella mia stessa via. Ci incontravamo al bar di piazza Euclide, osservavamo se c’erano tipi strani intorno a noi e ci ridevamo su. Gli piaceva parlare del presente, non era nostalgico».
Però del cinema di una volta aveva nostalgia...
«Non si riconosceva nel cinema di oggi. Non capiva l’ossessione dei produttori per il denaro, la fretta eccessiva. Era abituato alle preparazioni lunghe e accurate, alle discussioni con gli altri sceneggiatori. Con una punta di malinconia sulla sua età diceva: io penso che vada bene così».
C’era l’amarezza di chi aveva dato l’addio al cinema.
«Cinque anni fa mi diede il copione di un film che aveva scritto con una delle due figlie, e che poi non si fece più. Aveva pure il titolo: La badante . La storia di un signore che vive da solo, la figlia gli procura la badante straniera che lui rifiuta. Alla fine si innamora di lei, si sposano. Lo chiamai e mi disse: ormai sono stanco, ho girato tanti film e in giro ci sono bravi registi... Più di me».
Del film, «La cena»...
«Ricostruimmo Otello, la trattoria in via della Croce dove andavamo sempre, e dove l’avevo conosciuto, in un casolare vicino a Cinecittà. Mi chiamò all’ultimo, c’era poco tempo, avevo un lungo monologo, temevo di non aver memorizzato le battute. Con la sua solita calma disse di non preoccuparmi, mi avrebbe messo nel piatto un cartello con le parole. E poi, aggiunse, è un film, non dobbiamo mica cambiare il mondo, come pensano i giovani registi. Quella flemma la ritrovai in Massimo Troisi. A Cannes parlammo proprio di Ettore».
L’ultima volta che l’ha visto cosa vi siete detti?
«Gli feci un sacco di domande su un film che ha una grazia felliniana, non ebbe il successo che meritava, anche se fu nominato all’Oscar: Ballando Ballando . Mi disse di essere lontano da quel mondo di piccolo borghesi che nella sala da ballo della periferia di Parigi aveva come unico ponte di comunicare la danza. Eppure era affascinato da quell’atmosfera e mi disse che vi entrò con grande piacere e naturalezza».
Quel mondo di esclusi non era così lontano dalla politica che amava.
«Il suo impegno civile e politico non è mai venuto meno, forse è stato deluso dall’idea che aveva del Pci».
Lui e la femminilità: con le attrici come si relazionava?
«Gli piacevano, era affabile, gentile, dava loro lo spazio che volevano. Non era come Monicelli, dài che ti frega del trucco, diceva alle sue attrici. No, lui le curava molto».
Mancherà al cinema.
«Aveva undici anni più di me, era come un fratello maggiore. Sono stato fortunato a vivere con questi personaggi straordinari. E dunque, alla sua risata ci penso, d’accordo, ma con molta malinconia».
Filippo Ceccarelli per la Repubblica
Quinta meravigliosa, chiavica del mondo, deposito di ruderi, spiritacci, fatalismo, corporeità e poesia.
Dall’alba al tramonto la Roma di Ettore Scola - cresciuto all’Esquilino, invecchiato ai Parioli - si può far coincidere con il tempo che passa, attraversa le classi sociali (finché c’erano) dilata i confini dell’impegno politico mentre forza quelli della commedia all’italiana.
La claustrofobica visione del cortile imbandierato nel palazzo di viale XXI aprile e la grazia immacolata dei panni stesi sul terrazzo de Una giornata particolare, forse il punto più alto dell’opera del Maestro.
Le baracche e le strade di fango che si vedono in Brutti sporchi e cattivi, a Monte Ciocci, latente quartiere Aurelio, oggi quasi irriconoscibile. Ogni tanto uno spicchio di cielo e di traverso la Cupola di San Pietro, omaggio alle sequenze finali di Roma città aperta.
E quanto romano è ancora oggi il vociare nevrotico e il brulichio de La Terrazza. Al punto da entrare nel lessico della politica, del potere, intellettuali comunisti in crisi, ormai lontani dagli ideali della gioventù, e belle donne più giovani e saputelle, cicisbei del giornalismo, parassiti della letteratura, un presidente Rai che pretende di farsi il pedicure durante un Consiglio d’amministrazione. «Sembra la Terrazza!» e scagliarono quel film addosso al povero e innocente Enzo Siciliano, appena approdato a viale Mazzini.
Insomma, Roma: come è, come non è, come vuole essere raffigurata e insieme contraffatta dai più reali e verosimili stereotipi. Come se una specie di invisibile e spontanea sapienza sociologica, o magari era solo rabdomantica, avesse spinto Scola nella ricerca dei suoi luoghi.
L’appartamento ai Prati - il lungo corridoio, il pavimento di graniglia, i solidi infissi - entro cui si svolge nell’arco di un settantennio la vita tutta borghese de La famiglia. Ricostruzione d’ambiente perfetta, una cura che è arrivata ad annichilire la toponomastica scegliendo un indirizzo - via Scipione l’Emiliano - che a Prati non esiste, ma è come se esistesse.
E ristoranti («Il re della mezza porzione», sopra la chiesa della Consolazione), macchiette di venditori ambulanti e robotici («Interessa l’oggetto?»), ricordi di cinema (la ricostruzione del set de La dolce vita), un superbo, vecchissimo Aldo Fabrizi che fa il palazzinaro in C’eravamo tanto amati, e che in un dialogo con il genero, avido di beni, se ne esce con un genere di meditazioni - «l’omo più solo ar mondo è l’omo ricco» - che richiama la più comica e al tempo stesso la più tetra poetica del Belli.
Pochi altri autori hanno mantenuto un rapporto così lungo e intenso con Roma. I proletari di Dramma della gelosia e la devozione per il Pci; la più recente trasformazione della città eterna in aggregato multiculturale in Gente di Roma, di cui chissà se in futuro si apprezzeranno l’intento e la leggerezza.
E forse è vero che per ogni cosa, ogni amore, ogni relazione serbano il loro valore all’inizio. Il giovanissimo Scola esordì come vignettista satirico al Marc’Aurelio, ma l’Urbe stessa dopo tutto sprofonda la sua identità nell’essere una parodia, una caricatura, la scimmia di una grandezza irripetibile.
Poi frequentò le redazioni, altro luogo di disincanto capitolino, scrisse battute radiofoniche per Alberto Sordi, quindi sceneggiò quelle che restano pietre miliari dell’epopea romanesca, Un americano a Roma, per l’appunto, e ancora di più, ancora peggio, Un giorno in pretura, con l’indimenticabile scena della « marana », fiumiciattolo entro cui il protagonista lotta contro un tronco d’albero dopo che il suo pubblico l’ha incoraggiato con un grido anch’esso destinato a restare: «America’, facce Tarzan!».
E piazzale delle Belle Arti, Santa Maria in Trastevere, Porto fluviale col Gasometro, le ville dell’Olgiata, la «Garbante». Sguardi, squarci, vertigini e qualche lacrima.
Eugenio Scalfari per la Repubblica
Il ricordo che ho di Ettore Scola è di quelli che restano nella memoria e non sono fuggitivi, ti toccano nel profondo e fanno parte della tua vita. Da quando l’altra sera ebbi da Walter Veltroni notizia della sua morte quel ricordo mi è costantemente presente. Avevamo cenato insieme pochi giorni prima e poi ci eravamo ancora incontrati alla festa che ha celebrato i quarant’anni di Repubblica nella sala di Santa Cecilia all’Auditorium della musica. Ha avuto un improvviso malore domenica, tre giorni dopo quell’ultimo nostro incontro. Questa mattina andrò a salutare la sua salma alla Casa del Cinema di Roma. Scrivo queste personali notizie come testimonianza — condivisa da moltissimi amici — dell’importanza che ha avuto nel cinema italiano, che per suo merito, insieme e poi in anni successivi alla loro scomparsa, ha condiviso con Rossellini e con Fellini. Ha girato una quarantina di film, uno più bello dell’altro, da C’eravamo tanto amati a Una giornata particolare, La famiglia, La terrazza e infine quello che lui chiamava un documentario ma che in realtà — almeno per me — è stato uno dei suoi più grandi film se non addirittura il migliore: lo intitolò Che strano chiamarsi Federico ed è un racconto magico della vita di Fellini. Merita d’esser rivisto, quel film su Federico, perché trascende il protagonista del racconto, ne coglie l’anima, la fantasia, le emozioni e la fuga di Fellini da una realtà mediocre alla ricerca d’un mondo fantasticato dell’arte, della bellezza, della libertà, dell’invenzione. L’invenzione: è la facoltà che distingue la nostra specie da quella degli animali dai quali proveniamo. Quando il quadrupede scimmiesco delle origini si alzò da terra e rimirò il cielo stellato e riuscì a guardare se stesso con la mente, in quello stesso momento nacque in lui l’invenzione e insieme con essa nuovi desideri e nuovi bisogni da soddisfare. L’invenzione è il dono che la natura ci ha dato ed è questo che Ettore ha celebrato in tutti i suoi film, ma non soltanto; direi con la sua vita e i valori che l’hanno ispirata, le amicizie che ha avuto, la politica cui ha aderito.
Fu animato dall’amore verso la democrazia e verso la sinistra. Votava per il partito comunista soprattutto quando quel partito fece propri, non a parole ma con i fatti, i valori democratici. Berlinguer e Pietro Ingrao furono i suoi punti di riferimento; il fascismo il suo nemico costante, non più come antico ricordo ma come tentazione sempre presente della tirannide e della dittatura, che è una delle caratteristiche del potere e della presa che il potere ha sulla mente degli uomini. Bisogna vincerla, quella tentazione. Scola lo lascia intendere in tutti i suoi film con le forme cinematografiche le più diverse, da quella esplicita di Una giornata particolare a quelle implicite del gradasso, spesso impersonato da Vittorio Gassman. Nel film La famiglia lo scontro tra l’amore e il potere appare in una serie di scene dove quei due sentimenti contrapposti si intrecciano l’uno con l’altro e alimentano l’intensa contraddizione all’interno di tutti i personaggi del film, come nella realtà avviene in ciascuno di noi. Sono due caratteri essenziali nella vita e ciascuno di noi ne è pervaso. Anche Scola, perché non si può inventare senza contraddirsi e viceversa. Di queste cose parlavamo spesso, lui le raccontava nei suoi film, io nei miei libri e tutti e due, senza dircelo, ne eravamo pervasi. Per questo non scorderò Ettore finché vivrò: eravamo molto simili e quell’intreccio di sentimenti fece la nostra forza e la nostra debolezza insieme alla gioia di vivere e alla malinconia che sempre l’accompagna.
Masolino D’Amico per La Stampa
Ettore Scola era l’ultimo rappresentante ancora in vita, non certo il minore, del periodo del miglior cinema italiano. Nato nel 1931, esordì giovanissimo sul giornale umoristico Marc’Aurelio e contribuì alla trasmissione radiofonica con cui Alberto Sordi aveva cominciato a farsi conoscere; poi collaborò a numerosissime sceneggiature di film, in un’epoca in cui gli scrittori di cinema lavoravano in gruppo, spesso facendo coppia fissa con Ruggero Maccari.
Quando aveva portato i suoi disegni al Marc’Aurelio era un quindicenne sovrappeso dall’aria placida, e in redazione lo avevano soprannominato «Pecorino». Più tardi si sarebbe slanciato, e più tardi ancora avrebbe acquisito una bella barba bianca.
Le sue stagioni
La stagione della commedia all’italiana vera e propria la visse dagli inizi, cofirmando molti titoli, tra cui spiccano alcuni legati al Sordi più innovativo, Un americano a Roma (1954), Lo scapolo (1955), Il marito (1958), culminando col film fondante del genere, Il sorpasso (1962): che oltre a ribadire la vena amara di quel tipo di comicità dimostrò come la descrizione di difetti dei nuovi italiani potesse funzionare anche con interpreti diversi da Sordi, che l’aveva inaugurata.
Un passo successivo in questa direzione fu il copione di Io la conoscevo bene (1965), dove si ride poco e senza allegria. Quando passò alla regia, Scola trovò un clima cambiato. La commedia all’italiana come era nata e si era sviluppata stava diventando quasi anacronistica in una nazione avviata verso le tensioni e le lotte dopo gli euforici anni del boom.
Dopo alcuni filmetti senza pretese, avendo colto un grosso successo con uno dall’avventurosa ambientazione esotica - Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968) - Scola tentò una comicità meno realistica, tutta sopra le righe per quanto irresistibilmente spassosa, con Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca (1970), prima di girare quello che forse resterà il suo capolavoro (anche se lo avrebbero seguito altre pellicole più impeccabili nella loro organicità), con la riflessione nostalgica sul tramonto di una stagione: C’eravamo tanto amati (1974).
Qui tre amici passano dalle illusioni della fine della guerra alle meschinerie degli anni di piombo, esemplificando l’inquinamento della politica, la caccia al denaro facile e perfino la morte di certo cinema (uno di loro ha venerato Ladri di biciclette e ha vissuto le riprese della scena con la Fontana di Trevi nella Dolce vita). Sensibilissimo all’atmosfera dei tempi nuovi, Scola trovava ormai difficile recuperare la spensieratezza di quella in cui si era formato.
I più ispirati tra i più di trenta film che diresse sono in questa chiave sconsolata. Brutti, sporchi e cattivi (1976), grottesca rappresentazione di una bidonville, quasi un sarcastico commento a Pasolini; La terrazza (1980), sull’impotenza di un gruppo di intellettuali non più giovani; La famiglia (1987), riflessione sul trantran piccolo borghese che soffoca impulsi e fermenti. In questi due, Scola sfoggia uno stile tutto suo e molto legato alla scrittura, collocando le storie in un locale dal quale praticamente non si esce mai. Lo fece con virtuosismo registico anche in altre due pellicole meno personali ma pur sempre affascinanti, Ballando ballando (1983), dove filmò un incantevole spettacolo francese senza parole, e La cena (1995), dove spiò i dialoghi tra gli avventori di una trattoria durante un’unica serata.
Il più giustamente ammirato dei suoi lavori in questa chiave, limitato a due soli personaggi, fu Una giornata particolare (1977), maiuscola prova di Marcello Mastroianni e di Sophia Loren come due esclusi dalla gloriosa giornata che l’Urbe si appresta a vivere in occasione della visita di Hitler. Squisito anche come ambientazione, ne anticipò altri in costume dove la Storia era vista in un’ottica particolare, come Un mondo nuovo (1982) sulla Rivoluzione Francese, e Il viaggio del Capitan Fracassa (1990), sui comici del Seicento.
Nato in Irpinia ma cresciuto a Roma, Scola fu uno di quei romani più romani dei quiriti Doc, fenomeno che si riscontra almeno dai tempi di Cicerone e di Orazio: non nel senso di un’ostentazione del dialetto, ma in quello di un atteggiamento verso la vita fatto di tranquilla ironia e di un pessimismo di superficie che nasconde una passione profonda.
Personalmente simpaticissimo e sornione, il creatore dei personaggi più cinici di Sordi fu un uomo impegnato politicamente, schierato a sinistra senza settarismi, autore di documentari su momenti storici del Pci oltre che di Trevico-Torino (1975) sull’immigrazione interna e di Concorrenza sleale (2001) sull’opportunismo con cui gli italiani avevano accolto le leggi razziali. Attivo fino all’ultimo, con Che strano chiamarsi Federico (2013) fece in tempo a raccontare gli Anni 40 e il piccolo mondo creativo dei futuri cineasti in cui aveva mosso i primi passi, come nessun altro potrà fare, mai più.