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 2016  gennaio 21 Giovedì calendario

Il bambino con la maglietta di Messi fatta con un sacchetto di plastica e la scritta a pennarello. Ora tutti lo cercano, anche Messi

Un sacchetto di plastica, un pennarello, un bambino e il suo sogno. C’è questa fotografia che da qualche giorno fa il giro del mondo senza fermarsi mai: il bimbo è molto piccolo, indossa un maglioncino liso e, sopra, una busta della spesa o della spazzatura dipinta a righe bianche e celesti. Il bimbo è di spalle e su quelle spalle porta un numero 10 e un cognome, Messi. Un’immagine di indicibile forza e tenerezza, perché attorno al bambino si vede la desolazione, sassi e sterpaglie, solitudine. Vicino a lui non c’è nessuno, a parte la mano che ha scattato la foto.
Chi è quel bambino? Dove vive? Lo vuole sapere anche Lionel Messi, che attraverso il profilo Twitter di un suo fan club (@messi10stats) ha chiesto informazioni per mettersi in contatto col piccolo tifoso e, se possibile, aiutarlo. «Abbiamo ricevuto un messaggio dal team di Leo. Vogliono sapere chi sia questo ragazzo così da poter organizzare qualcosa per lui», si legge sull’account.
L’effetto domino è partito da un sito di sport turco, Fanatik, e ha contagiato viralmente (e virtuosamente) la rete con decine di migliaia di commenti. C’è chi sostiene, dopo qualche sommaria indagine, che la scena potrebbe collocarsi nella regione di Dohuk, in Iraq, oppure in Siria o forse in Afghanistan. Per ora non ci sono conferme né sul luogo né sull’identità del bambino. Si continuerà a cercare: la campagna di mobilitazione ha un titolo, “A kid in Iraq”, rilanciata in ogni angolo del pianeta insieme a un cuoricino spezzato.
Portata nel mondo dalla modernità istantanea dei social media, la fotografia possiede una fascinazione antica e senza tempo. È, a suo modo, neorealista. Il bimbo con il sacchetto annodato sulle spalle è fratello gemello di tutti coloro che sanno farsi consolare da un pallone, dalla potenza curativa dello sport. Persone spesso povere, che non possiedono nulla se non la ricchezza di immaginare se stesse altrove. Bambini di periferia, i sassi per segnare la porta, un pallone anche di stracci da calciare, il dolore che si stempera nella suggestione. Giochiamo che io ero Messi, giochiamo che era la Coppa del mondo. È sempre successo, succederà sempre.
Anche Messi, da piccolo (e lo è rimasto a lungo, davvero lui era una pulce) sognava di essere altro. Ed era già, Messi: non perdetevi su YouTube le sue immagini mentre gioca a calcio, con addosso una maglia enorme e sempre quel numero sulla schiena, il 10. Lo stesso del piccolo iracheno o siriano che mentre gioca non pensa di essere Messi ma è, Messi. La foto scatena naturalmente altre curiosità. Chi avrà annodato quel sacchetto? Un papà? Una mamma? Un compagno di giochi? O forse il bambino ha fatto tutto da solo. Sembra di vederlo mentre cerca il sacchetto, prende il pennarello e comincia a disegnare un numero e un cognome.
Tornano in mente altre immagini simili, come quella del ragazzino che si era fatto scrivere Ronaldo sulla pelle. Oppure le foto dei bambini soldato in Mali o in Repubblica Centrafricana, dove la Juventus e l’Unesco sostengono importanti programmi di aiuto. Bambini con la maglia bianconera e occhi che hanno visto il fondo dell’inferno.
Il fuoriclasse del Barcellona, ambasciatore Unicef dal 2010 e presidente di un’associazione benefica che porta il suo nome, è da sempre molto sensibile alle richieste dei tifosi più piccini. Ne ha incontrati molti in recenti viaggi ad Haiti e in Costa Rica, e all’Unicef ha dato parecchio denaro. Ricordandosi, forse, delle sue origini non proprio principesche e della sofferenza anche fisica che gli è costata la crescita, favorita dalla chimica e dalla medicina per dare forza e robustezza a quel corpo che proprio non voleva diventare grande. Le continue cure a base di ormone Gh, il viaggio dall’Argentina alla Spagna quando aveva appena dodici anni, i sacrifici e la fatica richieste da qualunque storia, anche dalla favola apparente. Perché, dietro, c’è sempre da lottare.
Chissà se alla fine lo troveranno, il bimbo con addosso la maglia dell’Argentina che maglia non è. Chissà se ha un pallone, inventato in qualche modo, e amici con i quali scambiarlo. Perché a volte basta poco, lo sa bene chiunque sia stato bambino su un campetto di periferia. Quando poi arrivava sempre quel momento di totale sospensione dalla realtà: si giocava a palla e basta, gli altri erano il Milan, tu eri la Juve e il campetto dietro la centrale elettrica era San Siro. Sarà sempre così, ovunque e in qualunque epoca. Ecco perché noi sappiamo dove viva quel bimbo, e chi sia. Lui è dove ci sono un pallone e una speranza. Lui, davvero, è Lionel Messi.