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 2016  gennaio 21 Giovedì calendario

Cala il sipario sul bicameralismo e il Senato. Senza neppure le altezze del dramma

E chi l’avrebbe detto che si doveva approvare la più importante riforma degli ultimi settanta anni? Era invece come la replica a notte fonda di una vecchia trasmissione tv, che non appassiona più né fa ridere. Non s’è sentito un brivido nemmeno quando Paolo Romani, capogruppo di Forza Italia, lo stesso che meno di un anno e mezzo fa sosteneva che il superamento del bicameralismo «non va fatto oggi, ma ieri», ha avvertito che le urgenze sono ben altre. Eppure la fine del Senato – soppresso per eutanasia in un clima di distacco clinico, mentre i senatori si passavano di mano spillette nemmeno tanto spiritose con scritto «siamo tacchini felici», cioè bestie destinate al macello per la grande festa – è una rivoluzione ormai a un passo. Dopo il voto di ieri manca soltanto quello scontatissimo della Camera: cambia il nostro modo di votare le leggi, di pensare la politica, cambia la struttura delle nostre istituzioni e lo si è deciso in fondo a un pomeriggio che era una veglia funebre, un pomeriggio malinconico, stanco, rassegnato, senza commozione. È che qua dentro si combatte da mesi e mesi, si è fatto ostruzionismo, protesta plateale, si è giocato con la tecnica degli emendamenti, prodotti a milioni dagli algoritmi, col regolamento, e cioè i canguri e le ghigliottine, che sono i titoli dell’astuzia parlamentare. Qua dentro i senatori, ringraziati ieri da Matteo Renzi con un atto di rituale buona volontà, hanno già cambiato di posizione e di schieramento senza essere sfiorati da un lampo di rossore. Si era già dato tutto, il molto peggio e il poco meglio, e agli oppositori non restava che alzare bandiera bianca, e ai vincitori di portare a casa il bottino senza sfilate di trionfo.
Ci ha poi provato Renzi, arrivato in aula alle 17,30, a ricolorare di epica ore più grigie che plumbee, appellandosi al momento fatale, alla storia, al sorriso del destino, ma lo ha fatto davanti a un’assemblea ormai poco incline alle ambizioni della retorica. Le velleità sfarzose delle parole di Renzi, più qualche classica smargiassata, hanno giusto dato un po’ di animo ai cinque stelle, che si sono messi a vociare e ridacchiare come fanno le scolaresche quando c’è il supplente. Che altro c’è da raccontare? Se interessasse, il buon Nicola Morra, sempre dei cinque stelle, professore di filosofia a Cosenza, non aveva potuto reggere il tentativo di Renzi di scambiare con Mario Tronti (senatore Pd e filosofo dell’operaismo) qualche considerazione su Max Weber, e aveva replicato con una breve lezione sulla mitopoiesi, la gnoseologia, Platone, e peccato che il premier si fosse già congedato. Se interessasse, il leghista Roberto Calderoli si è prodotto in una simpatica parabola sul diavolo custode – che occupa la spalla opposta a quella occupata dall’angioletto – e al quale si era rivolto per vendergli l’anima in cambio del disfacimento della maggioranza renziana: «Ma il diavolo mi ha detto che sono arrivato in ritardo: erano già passati Renzi e il suo babbo, e Boschi e il suo babbo...». Se interessasse i verdiniani hanno votato la riforma, niente di più scontato, ma hanno chiesto una revisione della legge elettorale (e cioè premio alla coalizione anziché alla lista così ci sarebbe l’opportunità di chiedere ospizio al Pd). Infine, e sempre se abbia un rilievo, Anna Finocchiaro (Pd, presidente della Commissione affari costituzionali) ha cercato di consegnare una logica storica, e cioè di tracciare un filo con l’assemblea costituente del 1946-48, ma in un clima impaziente che la si facesse finita. Dopo il passaggio conclusivo e protocollare a Montecitorio, e dopo quella Stalingrado che sarà il referendum, l’Italia sarà un’altra. Per ora, senza le altezze del dramma.