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 2016  gennaio 20 Mercoledì calendario

Una lettera immaginaria di Bruno Corbi, scritta da Oliviero Beha, al direttore di Repubblica per i 40 anni del giornale

In occasione dei 40 anni di “Repubblica” Oliviero Beha, che fu tra i fondatori del quotidiano, ha scritto una lettera immaginaria di Bruno Corbi, autore di una delle inchieste del primo numero del 1976.
Caro Direttore, sono Bruno Corbi (Avezzano, 1914-1983) e Le scrivo a proposito dei festeggiamenti per il quarantennale de la Repubblica ai quali non sono stato invitato neppure alla memoria. Leggo che opportunamente il Suo giornale ha dedicato molto spazio ai racconti di questa nascita da parte di chi ci ha passato qualche giorno o qualche settimana, degli interessanti “io c’ero” sui numeri zero con giudizi e aneddoti su quel varo e quei navigatori. Mi permetto di integrare le ricostruzioni poiché ho firmato sulla prima pagina del primo numero, un articolo sulla relazione di minoranza della prima Commissione parlamentare Antimafia, l’unica notizia che gli altri quotidiani quel giorno non avevano. Fece clamore quel testo del Pci perché era la prima volta che ufficialmente veniva tracciato il quadro in cui figuravano i rapporti con “Cosa nostra” di notabili democristiani, come Gioia.
Se non sbaglio, anche il primo numero del Fatto privilegiava la notizia di Gianni Letta indagato, quindi rilevo una certa assonanza tematica tra i due debutti. Per di più a lungo Repubblica fu più un giornale di opinioni che di notizie, al punto che in redazione la chiamavamo con affetto “Ripubblica” perché costretti a recuperare affannosamente il giorno dopo sugli altri. Ma era un ambiente vivo, con tutte le sue snobberie, il canto gregoriano della riunione di redazione, il carisma e la mutria del fondatore per cui tutti coloro che uscivano dal perimetro della devozione nei suoi confronti entravano nel “cono d’ombra”. Come Il Giorno è stato il giornale più vivo del secondo dopoguerra nell’Italia della Ricostruzione, Repubblica lo è stato per la prima generazione del post-secondo dopoguerra, del ’68, della modernizzazione quasi forzata di un Paese che aveva consolidato il suo benessere e lo confrontava con le varie contraddizioni della politica e dell’economia, a partire dalla lugubre stagione del terrorismo. Un po’ molto Palazzo, salotti radical quasi chic, qualche Piazza se capitava. Ma questo si sa. L’importanza di un giornale sta nel rappresentare il più fedelmente e onestamente possibile la realtà, e non invece nel forzarla dentro l’imbuto di ciò che conviene su altri tavoli. In questo senso mi lasci dire che la prima Repubblica era sensibilmente differente da questa, che festeggia. E non ho altro modo di dimostrarlo, specie per coloro (tutti i Suoi lettori?) che non sanno neppure chi io sia, che raccontarvi in due righe la mia biografia, leggermente più pesante dei cenni autoreferenziali un po’ di bottega che ho letto. Sono entrato a vent’anni nell’organizzazione clandestina comunista, espatriato in Francia, ritornato e nel ’39 arrestato dai fascisti e condannato a 17 anni di carcere. Caduto il fascismo, ho partecipato a tutte le organizzazioni e le lotte in Abruzzo, fondando e guidando la formazione partigiana detta Banda Marsica (unica attinenza con Scalfari…), riarrestato dai tedeschi nel ’44, torturato senza dire un nome e condannato a morte, alla vigilia dell’esecuzione sono evaso gettandomi dall’alto del Castello dell’Aquila dov’ero rinchiuso senza farmi nulla grazie alla neve e ricominciando le lotte. Per le prime due legislature deputato Pci per l’Abruzzo ho collaborato alla stesura della Costituzione, sono stato ricattato dal Partito per aver condannato nel ’56 i fatti d’Ungheria (“se non abiuri non verrai ricandidato”), quindi cacciato dal Pci e dalla politica… Lo so, sembra preistoria, e infatti per Repubblica e la memoria collettiva non sono mai esistito…