20 gennaio 2016
In morte di Michel Tournier
Stefano Montefiori sul Corriere della Sera
PARIGI Michel Tournier si era ritirato all’età di 34 anni (nel 1958) a Choisel, un villaggio di 500 abitanti nella campagna francese a un’ora d’auto da Parigi. Non per coltivare l’immagine dello scrittore eremita ma, anzi, «per amore della società», come spiegò in tv quando vinse il premio Goncourt, nel 1970 con Il re degli ontani (Garzanti). «Ho abitato a Parigi in mezzo a quella folla indistinta – raccontò – in un palazzo dove non conoscevo neanche il nome dei vicini. Credo che il padre di famiglia numerosa che guida un’azienda con molti dipendenti e vive in una grande città soffra di solitudine molto più di me. Qui almeno conosco le poche persone che incontro, ci parliamo, abbiamo un rapporto umano».
Nell’antico presbiterio che abitava a Choisel e dove ha scritto tutti i suoi romanzi, Michel Tournier è morto lunedì sera, all’età di 91 anni, circondato dai suoi cari tra i quali l’adorato figlioccio Laurent Feliculis, che lui considerava come un figlio adottivo.
Il suo romanzo di maggiore successo è Venerdì o il limbo del Pacifico (Einaudi), una rivisitazione del mito di Robinson Crusoe alla luce della lezione di Jean-Jacques Rousseau. Di quel libro pubblicato nel 1967, del quale quattro anni dopo scriverà una versione per bambini, Michel Tournier ha venduto oltre sette milioni di copie in tutto il mondo (tradotto in 35 lingue). Dopo Il re degli ontani Tournier scrisse Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, Gilles e Jeanne, Eleazar ovvero la sorgente e il roveto (editi in Italia da Garzanti).
Completamente staccato dal mondo editoriale e mondano parigino che odiava, Tournier riuscì comunque a conquistare un’enorme popolarità grazie solo alla potenza dei suoi libri e al rapporto con i lettori. Il presidente François Mitterrand andò per quattro volte in una sorta di pellegrinaggio letterario a Choisel per fare visita a uno degli autori più amati dai francesi.
Contro il tic che vuole il successo popolare di un’opera inversamente proporzionale al suo valore letterario, Tournier puntava apertamente a farsi leggere dal maggior numero di persone possibile. «Io voglio essere letto, e si è letti solo se le opere escono nelle edizioni tascabili. Non sono i soldi che mi interessano, è il lettore. È per lui che scrivo. Mi capita spesso di pensare a lui quando sono seduto alla scrivania. “Guarda, questa scena gli piacerà, sarà contento, o commosso”. Questo mi basta per essere felice».
La stima dei critici non gli è mai mancata, anche se lui tendeva a non frequentarli tranne che in occasione dell’assegnazione del premio Goncourt, di cui rimase un giurato fino al 2009. Tournier rilasciò anche dichiarazioni che fecero scalpore. Una contro l’aborto, alla fine degli anni Ottanta al settimanale americano «Newsweek» : «I medici che procurano gli aborti sono i figli e nipoti dei mostri di Auschwitz. Vorrei ripristinare la pena di morte per quella gente». Un’altra quando Tournier prese posizione, nel 1996, contro la legge Gayssot che punisce le dichiarazioni razziste, antisemite e xenofobe, in particolare quelle che consistono nella negazione dei crimini della Shoah. Come altri intellettuali, lo scrittore riteneva che fosse preferibile salvaguardare la libertà d’espressione, altrimenti «un fatto storico si trasforma in un atto di fede la cui negazione diviene una blasfemia».
Sul suo primo e più famoso romanzo, Venerdì o il limbo del Pacifico, disse qualche anno fa in un’intervista alla tv francese che «è il frutto di tre anni di studi che ho fatto al Museo dell’Uomo sotto la guida di Claude Lévi-Strauss. All’epoca in cui seguivo i suoi corsi, aveva appena pubblicato Tristi Tropici, che parla di quest’alternativa idiota tra l’uomo “civilizzato” e l’uomo “selvaggio”. Sono categorie inesistenti. Mentre seguivo le lezioni ho riletto il romanzo di Daniel Defoe Robinson Crusoe e mi sono detto allora che avevo per le mani un tema formidabile. Non grazie a Robinson, ma grazie a Venerdì, passato sempre sotto silenzio. È un romanzo di un’attualità straordinaria. Con Venerdì, il Terzo mondo bussa alla porta di Robinson. Un tema molto contemporaneo, quello dei sans papiers».
Nel 1979, con molti anni di anticipo, Michel Tournier scrisse la sua necrologia: «A proposito dell’amore, diceva: “C’è un segno infallibile dal quale si riconosce l’amore per qualcuno, e cioè quando il volto vi ispira più desiderio fisico di qualsiasi altra parte del corpo”». Pensò anche all’epitaffio: «Ti ho adorata, tu mi hai ripagato cento volte. Grazie, vita!».
Gabriella Boscoper la Stampa
Da ieri il maggior scrittore francese vivente non è più Michel Tournier. Novantunenne, se n’è andato lunedì sera, assistito dal figlioccio, nella canonica di Choisel, dove abitava da mezzo secolo, vicino a lungo di Ingrid Bergman. Sprofondato nella valle della Chevreuse, era il rifugio che aveva scelto per dedicarsi alla scrittura e diventare un mito. «Più sono visto e meno vedo», amava dire, lui che per i suoi grandi romanzi aveva bisogno eccome di spalancare gli occhi sul reale, andandolo a cercare.
In quella stanza dalla quale non si poteva più muovere, la stanza grande della canonica, il cui pavimento era tutto coperto di libri «per averli a portata di mano», è contenuto un tesoro: decine di quadernini scritti a mano, ogni giorno, il suo diario, che lui chiamava journal extime, diario aperto, per distinguerlo da quello intime, che non lo interessava per niente. Diceva infatti di non avere stati d’animo, o che comunque non erano importanti. Mentre era rapito da tutto ciò che accadeva all’esterno, fuori di lui.
Appassionato «soprattutto di geografia», l’autore di Venerdì o il limbo del Pacifico, del Re degli ontani, de Le meteore, dei deliziosi racconti raccolti nel Gallo cedrone, o ancora di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, libro in cui s’inventò che i tre Re Magi erano in realtà quattro – per citare solo i titoli principali – Tournier amava raccontar storie, e lo sapeva fare. Nato a Parigi il 19 dicembre 1924 in una famiglia cattolica da genitori universitari germanisti e germanofili, era bilingue. Aveva voluto laurearsi in filosofia all’Università di Tübingen, subito dopo la seconda guerra mondiale, affascinato dai libri di Bachelard e di Sartre, oltre che dall’opera omnia di Kant. Rientrato in Francia dopo la laurea, aveva però fallito per ben due volte l’«agrégation», il concorso per insegnare filosofia, rimanendoci malissimo. A posteriori, una vita dopo, disse che quel fallimento era stata la sua fortuna: non sarebbe diventato scrittore se avesse fatto il professore e in più, se fosse diventato professore, avrebbe insegnato una filosofia sbagliata ai suoi allievi, che avrebbe portato anche loro a fallire. Il suo spirito era troppo libero per adattarsi a una cattedra.
Scrivendo invece è diventato maestro di tutti. La versione per ragazzi di Venerdì (Venerdì o la vita selvaggia), ovvero del libro in cui aveva raccontato a modo suo la vicenda di Robinson Crusoe e che gli aveva fruttato nel 1967 il prestigioso premio per il romanzo dell’Académie, da oltre quattro decenni viene fatto leggere integralmente in tutte le scuole francesi. Tradotto in trentacinque lingue, è stato venduto in milioni e milioni di esemplari. Era quello che voleva: l’idea dell’elegante Pléiade Gallimard delle sue opere lo lusingava, certo, (uscirà quest’anno), ma preferiva vedere i suoi libri in edizione tascabile: «Quelli, si leggono», diceva.
La sua specialità era inserirsi nelle storie e nei miti modificandoli alla sua maniera (ma senza mai apparire: il fatto che Houellebecq, autore da lui peraltro molto amato, avesse fatto di se stesso un personaggio di nome Houellebecq, gli sembrava assurdo, «mai mi sarebbe venuto in mente una cosa del genere»).
Con Il re degli ontani, premio Goncourt 1970, in cui il protagonista Abel Tiffauges, l’orco de Kaltenbom, andava visto come una rappresentazione di Hitler e venne però anche interpretato, nell’ambito di una contorta polemica, come apologia di nazismo («per questo l’editore italiano che Calvino rappresentava a Parigi non lo volle tradurre?»), Tournier elaborò il lutto per l’amata Germania che tanto lo aveva deluso. Con Le Meteore, indagando sul terreno alla maniera di Zola, trattò un tema che lo incuriosiva, quello della gemellarità. Nel Vento Paracleto accostò una sorta di originale autobiografia, a metà strada tra saggio e racconto, tierce forme non lontana da quella auspicata da Barthes. E così di libro in libro, divertendosi a variare. Mentre si dedicava anche all’altra passione: la fotografia. Fu lui a inventare con Lucien Clergue gli incontri di Arles, diventati poi importantissimi. Lavorò alla radio e in televisione, dove condusse a lungo una trasmissione dedicata proprio alla fotografia, Chambre noire.
Nel 2002 ebbe il premio Campiello alla carriera. Varie volte indicato come probabile Nobel, bisogna dire che non ne aveva più bisogno. Fedele al berrettino di lana che non toglieva mai, felice del suo giardino anche se poteva guardarlo ormai solo dalla finestra, continuava ad avere delle soddisfazioni. Ad esempio una giovane voce di donna che tutte le sere gli telefonava, «n’est-ce pas?». È il suo ultimo racconto, vero o inventato che sia.