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 2016  gennaio 20 Mercoledì calendario

La dodicenne di Pordenone ha girato un video con la finestra da cui voleva buttarsi

DALLA NOSTRA INVIATA
PORDENONE Un video spedito via WhatsApp che mostra la finestra della sua cameretta. «Adesso mi butto da qui» annuncia la didascalia che lo presenta. «Ti prego, non lo fare» è la supplica dell’amica che risponde.
Il mattino dopo la stessa amica si sveglia presto, preoccupata. Vuole un cenno di vita: «Ehi luna...». Risposta: «Mia mamma mi ha bloccata sulla finestra...». «Tua madre ti ha salvata». «Un cavolo, adesso sto peggio di prima». «Perché stai peggio?». «Era meglio se me ne andavo... Tu sei una persona vera e sincera, ti sei preoccupata di una sfigata come me». «Perché sei sfigata?». «Bullismo, bullismo, bullismo».
Bullismo. È un’ossessione, quella parola, per la ragazzina dodicenne di Pordenone che due giorni fa ha tentato il suicidio buttandosi dalla finestra di casa dopo averlo annunciato via WhatsApp all’amica la sera del 10 gennaio e – stando al suo racconto – dopo averci provato quella stessa sera ed essere stata fermata dalla madre. Ora, il punto è: quali sono i gesti che lei chiama «bullismo» senza specificare nulla? Quali sono le vessazioni subite fino a farla «morire dentro», come scrive nella lettera d’addio lasciata a mamma e papà? Quali le critiche e le sofferenze patite di cui parla nel messaggio lasciato ai compagni di classe? E chi l’avrebbe istigata al suicidio, come lei stessa racconta?
La procura dei minori di Trieste sta mettendo in fila gli indizi, chiamiamoli così, che potrebbero disegnare il quadro della prepotenza di cui lei si è sentita vittima a scuola. Dove vittima vuol dire molte cose assieme, ancora tutte da verificare: per esempio vuol dire tenuta in disparte, anche fisicamente, da quelle alleanze che per gli adolescenti diventano gruppi di riferimento vitali, oppure esclusa dalle chat dei compagni che per lei contavano molto, o ancora: destinataria di molestie telefoniche non meglio specificate, ferita e offesa con parole che «mi rimbombavano nella testa e mi facevano piangere per ore», sbeffeggiata con quaderni tirati addosso.
Sembra che le prime ricostruzioni d’indagine portino dritte all’esistenza di un gruppetto di bulli – più adulti rispetto a lei – che l’avrebbe presa di mira ripetutamente. Con quale genere di angherie ancora non è chiaro, mentre con il passare delle ore emergerebbe che, più in generale, quel gruppetto si sia reso responsabile (all’interno dell’istituto) di molestie a sfondo sessuale e azioni per umiliare la vittima di turno (per esempio sputarle addosso o lanciarle in faccia gomme da masticare). Tutto questo sarebbe qualcosa di più di semplici voci raccolte a scuola ma non abbastanza per essere ritenuto provato. Né è stato ancora possibile accertare se davvero, come qualcuno sostiene, la direzione scolastica fosse al corrente di qualche dettaglio. Di sicuro non ne era al corrente il servizio «droga e bullismo» attivato in città (con numero di telefono dedicato e garanzia dell’anonimato): in più di un anno nemmeno una chiamata, segno della stessa enorme difficoltà, nel confidarsi con gli adulti, avuta dalla ragazzina aspirante suicida.
Le sue condizioni «migliorano di ora in ora» dice il padre al telefono dall’ospedale, definendo la sua famiglia «sconvolta e ferita» e determinato a «cercare di capire se qualcuno in questa storia ha delle responsabilità, e non parlo certo dei bambini».
Chissà se lei, la ragazzetta che scriveva di voler essere «dimenticata e basta», quella che cercava su Google da quanti metri di altezza sarebbe morta di sicuro, si sente ancora «sfigata». «Perché?» aveva insistito l’amica. Risposta: «È difficile spiegartelo».