Corriere della Sera, 20 gennaio 2016
A battere gli statali fannulloni non c’è mai riuscito nessuno
Andare la domenica allo stadio era terapia allo stato puro. Tifare Verona Hellas gli serviva per recuperare lo stato psicofisico, ha convenuto con la difesa il giudice del lavoro che ha prosciolto dall’accusa di assenteismo fraudolento uno dei due vigili urbani pizzicati sulle gradinate del Bentegodi anziché a casa come aveva prescritto il medico. D’altra parte, non l’aveva certificato proprio il responsabile sanitario della Asl scrivendo che il vigile «trova sfogo all’ansia e alla tensione nervosa con il ballo e assistendo alle partite di calcio»? Al pubblico ministero non è rimasto allora che chiedere l’archiviazione, motivando la richiesta perché «non sussiste illecito penale, ma solo fatti di rilievo disciplinare». E qui si apre un altro capitolo infinito. Il Nostro rischia adesso uno scappellotto, il suo collega è invece sotto processo: entrambi restano attualmente in servizio. Mentre il capo della polizia municipale che ha avuto l’ardire di denunciarli ha passato momenti migliori. Prima i sindacati e i politici l’hanno fatto nero e poi si è ritrovato sulle spalle anche un’inchiesta giudiziaria.
Matteo Renzi è dunque avvertito. La sua guerra non riuscì a vincerla nemmeno il segretario del Pcus Yuri Andropov che nel 1982 dispose non soltanto il licenziamento in tronco degli assenteisti, ma addirittura l’arresto. Plotoni di poliziotti rastrellavano i cinema in cerca dei finti malati, che al più potevano sfuggire al tornio sorbendosi la Corazzata Potemkin. Invece in Italia c’è stato chi per trovare il presunto infermo è dovuto andare all’ippodromo, scoprendo in sella a un purosangue il casellante autostradale in malattia a causa di un problema cervicale procurato dal fatto che doveva continuamente girare la testa a sinistra. Faceva il fantino. Il giudice ha accolto la tesi che il fantino non deve sempre voltare il capo a sinistra, ma durante la corsa guarda dritto avanti a sé. Al casello patisce dolori indicibili, che spariscono in groppa al cavallo.
Se l’assenteismo avanza da Palermo a Roma a Sanremo, se dilaga negli enti locali e nelle società municipalizzate, se nel settore pubblico (dice Confindustria) è del 50 per cento superiore che nel privato, se un vigile urbano (dice Antonio Galdo su Nonsprecare.it) si ammala in media 60 giorni contro i 50 di chi lavora in un ministero e gli appena sette di un magistrato, la responsabilità di chi è? Anche del sindacato, argomenta qualcuno. E non potrebbe essere diversamente leggendo contratti integrativi come quello della municipalizzata romana Ama, dov’è previsto il premio di produttività anche per chi lavora almeno metà dei giorni. Sicuramente c’entrano certe sentenze che vanificano le poche denunce dei dirigenti… Ma soprattutto un’idea che si è radicata bene in profondità, fin dai tempi delle baby pensioni. L’idea che il posto pubblico serve per erogare uno stipendio, piuttosto che un servizio alla collettività. Idea consacrata in un fatto che scandalizzò Romano Prodi, quando durante una riunione sull’assenteismo si sentì proporre da uno dei convenuti di dare qualche euro in più a chi si presentava al lavoro. Ignorando che quel bonus c’era dal 1995, occultato dietro la criptica dizione «fondo unico di amministrazione». Ad estirpare la piaga non è riuscito nessuno. Nemmeno l’ex ministro Renato Brunetta con la sua legge 150. Dopo un iniziale calo le assenze sono tornate ai livelli consueti. Secondo una indagine della Confindustria pubblicata giusto nel gennaio 2015, se l’assenteismo del settore pubblico venisse riportato al livello del settore privato risparmieremmo 3,7 miliardi l’anno. Ed è inevitabile rilevare come la regione più colpita sia il Lazio: con epicentro a Roma.
Perché è vero che le leggi ci sono, ma è altrettanto vero che non vengono applicate. Né ieri, ne oggi. Nessuno dei 767 vigili urbani romani misteriosamente scomparsi la notte di Capodanno 2015 risulta aver per so il posto. E dei circa 7 mila procedimenti avviati nel 2013 se ne sono risolti con il licenziamento appena 220: meno della metà per assenteismo.
Non ha perso il lavoro quel «professor M.» che dopo aver collezionato il 72 per cento di assenze ed essere uscito indenne da due procedimenti disciplinari, è stato solo trasferito. Non ha perso il lavoro quel giudice donna, affetta da una grave patologia alla colonna vertebrale che l’aveva costretta ad assentarsi dal lavoro per nove mesi e mezzi in un solo anno: salvo poi scoprire che trascorreva la malattia impegnata in una regata transoceanica. E non l’ha perso nemmeno il signor V, impiegato negli uffici giudiziari di Crema che voleva il trasferimento: non avendolo ottenuto, aveva accusato un mal di schiena che per due anni ne aveva pregiudicato la presenza al lavoro. Finalmente trasferito, aveva fatto causa al ministero perché in quei due anni era intervenuta una tremenda depressione. Per inciso, era un sindacalista.