Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 19 Martedì calendario

Intervista al faccendiere Gianmario Ferramonti, che presentò Fabio Arpe a Flavio Carboni per Banca Etruria

Per lui una storia semplice. Basata non sugli affari o la massoneria, ma sull’amicizia. «A un certo punto mi chiama Flavio Carboni e mi dice: senti, tra le migliaia di persone che conosci hai il nome di qualcuno in grado di fare il direttore generale di Banca Etruria? Io gli dico: uno giusto ce l’ho. E così gli presento il manager Fabio Arpe che avevo visto più volte a Roma nel giro di politici e gente del business che frequento. Ma il mio ruolo finisce qui. Non ho partecipato ad altri incontri, né col padre della ministra Maria Elena Boschi, né con Valeriano Mureddu, il suo vicino di casa con cui non ho mai avuto rapporti. Se ci fosse altro lo racconterei. Del resto in vita mia ho fatto cose ben più pericolose che partecipare a riunioni tra banchieri».
Gianmario Ferramonti è di buon umore. Con il Fatto Quotidiano parla volentieri dello strano caso Banca Etruria e dei suoi 63 anni di vita. Ricorda l’amicizia con Francesco Pazienza, l’agente segreto del superSismi, all’epoca del Banco Ambrosiano. Evoca i suoi rapporti con l’ex capo della sicurezza Telecom, Giuliano Tavaroli e con Mario Foligni, autore di un dossier che molti anni fa fece tremare la Dc. Mostra le foto che lo ritraggono con Licio Gelli. Quelle che lo immortalano a tavola con il “fraterno amico Flavio (in senso cristiano)” e un’immagine ripresa per strada in cui è alle spalle di Arpe e Carboni. Oggi, come nei primi anni Novanta il nome di Ferramonti è di nuovo associato ai primi mesi di vita di un governo. Allora era l’esecutivo Berlusconi. Ora tocca a quello di Matteo Renzi.
Sembra farlo apposta. Quando esplode un caso politico lei c’è…
«Guardi, io del giro renziano non conosco nessuno. Non sono miei rapporti, anche perché io per la sinistra ho l’idiosincrasia».
Vedere il suo nome accanto a quello di Carboni e dell’ex vicepresidente dell’Etruria a molti suscita, però, stupore. Lei è stato spesso descritto come legato alla massoneria e agli 007…
«Mi piacciono le persone intelligenti. Ma non sono mai stato arruolato. Ci hanno provato. Ma io sono inarruolabile. Perché sia nei servizi che nella massoneria devi essere disponibile all’ubbidienza. E io sono poco adatto. Sono un disubbidiente».
Chi ci ha provato?
«Il Sismi quando bazzicavo per lavoro la Russia nei primi anni ’80. Poi ogni tanto qualche servizio straniero. Ma preferisco glissare perché ho ancora amicizie tra gli 007…».
Ma lei di lavoro cosa fa?
«Sono un perito elettronico. Ho installato apparati in Irlanda nei primi anni Settanta. Poi ho lavorato per una multinazionale americana, una giapponese e ho fatto molti soldi con l’home computer in Inghilterra».
Come nasce la sua amicizia con Gelli?
«A fine anni 80 inizio anni 90 ho cominciato a frequentare Roma. Mi vedevo con Alfredo Di Mambro, un uomo in gamba che consideravo mio padre. Di Mambro, massacrato con me nell’indagine poi archiviata su Phoney Money, era stato per tanti anni il punto di congiunzione ta la massoneria americana e quella italiana. Lui e Gelli erano già anziani e quindi se dovevano dirsi qualcosa non al telefono mi usavano come piccione viaggiatore».
Messaggi di che tipo?
«Per esempio quando decidemmo che Gelli supportasse la Lega nord. Fu un’idea di Di Mambro. Gelli parlò pubblicamente dicendo: “Io oggi voterei per loro”».
È nato così anche il suo legame con Enzo De Chiara, il lobbista di Washington in contatto con molti politici e aziende italiane?
«No. Nel 92-93 Bossi voleva andare negli Stati Uniti. Io allora ero amministratore della Pontidafin, la finanziaria della Lega. Di Mambro mi disse di avere un amico al Dipartimento di Stato, uno ben collegato: era De Chiara. Bossi non andò poi negli Usa, ma in compenso De Chiara venne in Italia a far nascere il governo Berlusconi».
Come? Far nascere il governo?
«Lui era il fiduciario di Bill Clinton».
Ma De Chiara non era repubblicano?
«Le spiego. Enzo è una persona straordinaria. È vero era repubblicano, ma rappresentava negli Usa alcuni grossi gruppi italiani, tra cui il gruppo Stet Ferruzzi. Ebbe la fortuna che quando Arturo Ferruzzi, il capostipite, andò in America a comprare dei terreni nell’Arkansas il governatore fosse Clinton. Arturo mandò un jet privato a prelevare Bill e Hillary e li portò in Italia. De Chiara stette con loro per una settimana. Così divennero amici e poi Clinton anni dopo fu eletto presidente».
E la nascita del governo?
«Io nel 93 avevo elaborato un documento sul futuro politico italiano basato sulla nuova legge elettorale consegnato da De Chiara a Clinton. Io prevedevo la formazione del centrodestra e del centrosinistra e prevedevo che alla guida del centrodestra ci dovesse essere Berlusconi».
Lei Silvio Berlusconi lo conosceva?
«L’ho visto per la prima volta con Dell’Utri nel 1983 in via Rovani a Milano».
Quindi nel 93 lei era già al corrente che stava pensando alla discesa in campo?
«Ero amico di Ezio Cartotto, la persona che era stata scelta per studiare l’eventualità. Berlusconi però avrebbe voluto appoggiare Mariotto Segni, finanziandolo. Parte delle trattative le feci io. Ma Segni era mal consigliato. C’era un certo Bicocchi, un ex dc di Lucca, che si mise di traverso sull’Msi. Ma non si poteva fare il centrodestra senza la destra. Lo avevo pure scritto nel documento dato a De Chiara, da cui nacque la lettera di Clinton del 6 gennaio con cui lui dava l’ok per la discesa in campo. Si tratta della lettera per cui il pm David Monti cercò di interrogare il presidente Usa».
Lei allora era leghista, il partito del ministro dell’Interno Maroni…
«Maroni lo facemmo diventare noi ministro».
Cosa intende per noi?
«Io, Vincenzo Parisi, l’allora capo della Polizia, e De Chiara».
Parisi?
«Sì, io ero in ottimi rapporti con lui. Era l’uomo più potente di Italia».
Ferramonti la sensazione è che a lei non dispiaccia raccontare queste cose. E che parli volentieri di Banca Etruria.
«Cioè che tutto questo casino mi faccia comodo? Sì mi fa comodo. Perché sto studiando una rentrée in politica seria. Perché non c’è più un partito della nazione e io è da un po’ di tempo ho elaborato una mia teoria sugli italiani: non sono né di destra né di sinistra e neanche di centro. Sono particolari. Vogliono solo un posto sicuro, come dice Zalone…».