Corriere della Sera, 19 gennaio 2016
La Borsa dei fallimenti, ovvero un mercato telematico dei beni posti in vendita dove i creditori possono riscuotere con un voucher e i dipendenti possono rilevare un ramo d’azienda sano
Per la prima volta dopo quattro anni l’ecatombe di imprese sembra essersi arrestata. Secondo l’Unioncamere nel 2015 il numero dei fallimenti è diminuito del 4,8 per cento. Ma il piccolo respiro di sollievo che i dati dell’ente pubblico presieduto da Ivan Lo Bello consentono di tirare non cancella certo lo scenario terribile che il passaggio della crisi ci ha consegnato. Nelle procedure fallimentari, sempre più lente e farraginose, sono oggi incagliati 200 miliardi di crediti; 78 nei soli ultimi cinque anni. Una somma prossima al 13 per cento del Prodotto interno lordo che rimane inutilizzata, con il risultato di frenare ancora di più la ripresa. Il ministero della Giustizia di Andrea Orlando ha quindi messo a punto per quell’enorme massa creditoria una via d’uscita che assumerà forma concreta nella riforma del diritto fallimentare pronta per affrontare l’iter parlamentare. Si chiama «Progetto Common», acronimo anglosassone che sta per Complementary money, e prefigura di fatto una borsa dei fallimenti.
Come funziona? Chi vanta un credito nei confronti di una ditta fallita ha la facoltà di convertirlo in una specie di voucher chiamato appunto «Common» a parità fissa di uno a uno con l’euro e con scadenza prefissata coincidente con la chiusura del fallimento. Quel voucher può essere utilizzato per acquistare su un mercato telematico nazionale dei beni posti in vendita da tutte le procedure concorsuali ed esecutive. Con questo sistema un artigiano potrebbe per esempio acquistare direttamente su questa specie di borsa online un furgone da un fallimento che l’ha messo in vendita pagandolo con il proprio credito vantato nei confronti di un’altra azienda fallita. Al tempo stesso i lavoratori di un’impresa insolvente che vantano crediti per stipendi arretrati e liquidazioni non pagate potrebbero rilevare con il loro «Common» un ramo d’azienda sano da un altro fallimento e avviare un’attività imprenditoriale.
Spiegano quindi gli esperti di Orlando che enormi vantaggi ne avrebbe anche lo Stato, di gran lunga il maggior soggetto creditore in queste procedure, che potrebbe rilevare immobili da destinare ad housing sociale, se non addirittura utilizzare il suo «Common» per pagare debiti verso i fornitori. Le banche, poi, ingolfate di sofferenze, sarebbero addirittura in grado di erogare prestiti in «Complementary money», trasformando gli incagli in crediti sani. Il destino del «Common» scaduto e non impiegato è quello di essere convertito in quote di un fondo nel quale far confluire i beni invenduti.
Curatori incalliti, specialisti nel far durare le procedure più a lungo possibile, nonché professionisti del grande affare delle aste fallimentari a prezzi stracciati: possiamo immaginare quanto saranno felici. Perché la borsa dei fallimenti di sicuro sconquasserà un sistema parassitario che da decenni muove enormi interessi economici. Resta solo da capire se e come il progetto arriverà al traguardo. Le resistenze sono molte, e diffuse anche negli stessi apparati istituzionali.