Corriere della Sera, 19 gennaio 2016
Manganelli odiava la tv, ma si arrabbiò quando chiusero Carosello
Nel venticinquesimo della morte di Giorgio Manganelli (l’anno scorso), è uscita una raccolta di suoi interventi giornalistici che arriva con qualche mese di ritardo (Cerimonie & Artifici, Aragno): ma non fa niente, gli anniversari, si sa, sono solo degli utili pretesti. C’è l’imbarazzo della scelta tra i tanti paradossi che lo scrittore funambolo (dell’angoscia) mette in fila: è la figlia Lietta che ne riunisce gli scritti su teatro, cinema e televisione. Del teatro Manganelli ha un’idea «perplessa»: quel che lo irrita è la presenza degli attori e del pubblico, dunque murerebbe volentieri le porte per impedire al pubblico e agli attori di accedere alla platea e alla scena.
Come avverte Lietta, neanche il cinema era la passione di Manganelli: «Entrava a film iniziato, usciva prima che finisse». Una delle poche eccezioni fu Il terzo uomo, che vide sei volte di fila. Una stroncatura di Novecento fu consegnata nel 1976 all’esame da giornalista. Manganelli andò a vedere il film di Bertolucci dopo il sequestro, incuriosito più dai misteri della censura che dalla qualità del film e dai dibattiti che lo accompagnarono. «Cattiva letteratura? Molto meno. Il racconto più vasto e storicamente impegnato del film italiano recente è insieme furbo e puerile. Ingenuo e fascinoso. Nulla vi è necessario, la tragedia si scioglie in una serie di “belle figurine”».
Della televisione Manganelli detesta (finge di detestare) quasi tutto, al punto che, dice, è sprovvisto di televisore. Eppure nel 1975 interviene sulla minacciata chiusura di Carosello per sostenerne la conservazione, convinto com’è che si tratti non di pubblicità ma di un’«operazione teologica abilmente occultata»: abolirlo significherebbe dare un colpo fatale al già modesto livello filosofico degli italiani. I suoi concetti di fondo, infatti, pulire nutrire crescere..., non fanno che velare appena il vero obiettivo di Carosello, «diffusore del sacro sotto forme frivole», che è la felicità cosmica. In un esilarante racconto del 1977 Manganelli rivede se stesso ospite recalcitrante di una rubrica tv condotta da Arbasino, dove dalla perplessità passa all’ansia, al panico, alla tentazione della fuga, del malore, della morte e della levitazione in diretta. Fosse accaduto, Manganelli se lo ricorderebbe ancora oggi anche l’uomo medio e men che medio, categoria alla quale diceva (paradossalmente) di appartenere.