19 gennaio 2016
In morte di Cesare Colombo
Marco Belpoliti per La Stampa
La sua foto più famosa, e probabilmente più bella, ritrae il grattacielo Galfa a Milano. Scattata nel 1968 di sera, da palazzo a palazzo, mostra gli uffici illuminati. Dentro ci sono gli impiegati al lavoro: una griglia, un alveare, un carcere. Ognuno è solo dentro il suo loculo, al sicuro, e tuttavia prigioniero. Se si dovesse scegliere un’immagine della condizione della società contemporanea, società dei colletti bianchi, come si diceva un tempo, bisognerebbe indicare senza ombra di dubbio lo scatto di Cesare Colombo, classe 1935, che se ne è andato ieri dopo una vita piena di libri, fotografie, incontri, conferenze, dibattiti.
Colombo amava molto discutere, l’ha fatto per un’intera esistenza, come ha raccontato di recente nel libro La camera del tempo(ed. Contrasto), scritto insieme con Simona Guerra. Giovane studente universitario, figlio di un pittore, lascia gli studi per immergersi nell’attività dei circoli fotografici del dopoguerra, per diventare un «fotografo sociale», e quindi un bravissimo divulgatore attraverso testi e scritti che restano ancora oggi un punto di riferimento per chi voglia capire cosa è stata la fotografia italiana del dopoguerra. Colombo, frequentatore giovanissimo del Circolo Fotografico Milanese, ha sempre ritenuto i fotoamatori alla pari dei fotoreporter, uomini che lavoravano per lenews, i veri descrittori del nostro Paese nell’epoca della sua grande trasformazione, quando da paese agricolo ha mutato pelle diventando una potenza industriale.
Nato a Lecco, è stato un cittadino di Milano, la capitale morale, ma anche la città dell’industria, che ha descritto in una mostra straordinaria, «L’occhio di Milano», alla Rotonda della Besana del 1977. Passando in rassegna le immagini che in sessant’anni ha prodotto con costanza e continuità, si rivedono i luoghi e i volti dello sviluppo economico italiano, le fabbriche, perché Colombo è stato prima di tutto un fotografo d’industrie, dove lavorava e viveva quella classe operaia di cui ha dato una descrizione fedele, mai ideologica. Tuttavia il suo soggetto migliore è stata probabilmente la classe media che descrive nei ritratti di supermercati o nelle immagini delle Fiere campionarie, lungo i marciapiedi di Milano, ma anche nel corso della contestazione del Sessantotto, ad esempio alla Triennale.
La curiosità verso questo mondo di cravatte e giacche gli è cresciuta nel corso del tempo, quando a metà degli Anni Sessanta realizza fotografie pubblicitarie e industriali. Si può ben dire che Colombo è stato un fotografo della quotidianità, sempre guardata con uno sguardo empatico, mai disincantato, mai sopra le righe o enfatico. La sua fotografia ha sempre mirato a una medietà estetica, erede di una tradizione visiva che nasce nella fotografia e cinematografia russa dell’età di ferro. In un’altra celebre immagine si scorge una giovane ragazza con il tutù bianco mentre esce da una portafinestra a Como, nel 1957; il punctum dello scatto è un giovane che braccia conserte in giacca e cravatta si appoggia alle gelosie all’esterno: il gesto attivo di lei e quello statico di lui.
Cesare Colombo, oltre che autore di libri sulla fotografia, antologie e raccolte storiche, organizzatore di mostre e iniziative culturali, è stato anche grafico e socio di bottega di Toni Nicolini, suo sodale, con cui espone, assieme a Berengo Gardin alla fine dei Sessanta alla galleria «Il Diaframma». Ha svolto anche il ruolo di fotoreporter, seppur meno di altri suoi coetanei, perché tutta quella generazione, nata negli Anni Trenta, è stata battezzata in quel lavoro dal Mondo di Pannunzio e dalle sue scelte estetiche che facevano della fotografia un’illustrazione piuttosto che una comunicazione di notizie, come ha ricordato un altro grande vecchio della nostra fotografia, Uliano Lucas.
Colombo ha sempre collaborato a riviste, da Ferrania a Abitare e a Domus, oltre naturalmente all’Illustrazione italiana. Se si volesse riassumere in una definizione Cesare Colombo, forse si potrebbe dire che è stato un fotografo intellettuale, per i libri che ha letto e per quelli che ha scritto, oltre che per le bellissime fotografie che ci lascia, ritratti in bianco e nero del nostro passato prossimo.
Michele Smargiassi per la Repubblica
Sarà dura adesso per lei, «che per tanti è ancora la parente povera, la sorellina disabile dell’arte», insomma per la fotografia, far senza di lui, uno dei pochi che in Italia abbia creduto in lei, nella sua forza, nella sua dignità culturale. Cesare Colombo se n’è andato ieri mattina a ottant’anni, nella sua Milano, stroncato da un infarto a cui non voleva cedere: dall’ospedale aveva telefonato chiedendo occhiali e giornali.
Non voleva smettere di guardare. Troppo corti i titoli per definirlo: fotografo, grafico, critico, storico, giornalista, editor, docente, archivista, pubblicitario, curatore, una carriera scomposta come in un prisma dal secolo dell’immagine, ma non frantumata, perché la sua coerenza è così evidente che lui stesso ne distillò un motto, anche se poi lo donò a un libro dell’amico Gianni Berengo Gardin: L’occhio come mestiere.
All’arte del guardare bene ma senza farsi sedurre dalle immagini lo avevano abituato le modelle seminude e infreddolite attorno alla stufetta elettrica nello studio del padre pittore. Ma lui poi scelse la fotografia, primo consumo “superfluo” che negli anni Cinquanta già tirava la volata al boom. Fiorivano i circoli di fotoamatori, queste «società di mutua ammirazione» dedite a «sacri weekend estetici» che poi si incendiavano nelle dispute se la fotografia fosse arte o documento: nel Circolo fotografico Milanese il giovane Cesare si schierò contro gli “esteti” di Cavalli e con i “realisti” di Donzelli. Il Cesare adulto, nell’equilibrio raggiunto fra la sua grande mitezza e il suo rigore intellettuale, giudicherà con simpatico compatimento «estremista e manicheo» quel ragazzo dalla penna fluente come lo sguardo: ma erano anni di ideologie e passioni, figurarsi i genitori quando Colombo lasciò uno splendido posto fisso all’Agfa «per non diventare un capufficio» e si mise a fare il freelance, l’«operatore arrabbiato» diceva lui, con la fotocamera ma anche con la matita e con la macchina per scrivere, felice e combattivo nella bohème milanese da Vita agra di Bianciardi, uno studio caotico di via Vigevano condiviso con Toni Nicolini e Giovanna Calvenzi, in precario entusiasta equilibrio fra esistenze parallele, da fotografo “socialmente impegnato” nelle fabbriche a consulente visual-editoriale delle imprese. C’era una generazione di giovani intellettuali che avevano intuito parecchio sul potere delle immagini seriali nella società di massa, nomi ora troppo dimenticati, Giuseppe Turroni, Antonio Arcari, Romeo Martinez, e Colombo ne faceva parte, inventando riviste, curando volumi e mostre seminali come L’occhio di Milano, sperimentando in proprio linguaggi nuovi dell’immagine critica (nel 1969 il grattacielo Galfa fotografato di sera come un alveare di impiegati nelle loro cellette era già un manifesto sull’alienazione post-industriale).
Purtroppo la cultura della sua Italia, «paese non predestinato alla fotografia», pensava che occuparsi di foto fosse infantile come giocare a figurine per strada. Non lo pensò il Mozambico post-rivoluzionario che chiese a Cesare un aiuto per recuperare la fotografia come strumento di riscatto nazionale. Esperienza formativa: nel mezzo del cammin di sua vita Colombo aggiunse alle altre la sua vocazione forse più longeva, quella del salvatore di fotografie altrui, della memoria visuale viva ma sepolta negli archivi, memoria della città, dell’architettura, dell’industria, della famiglia. Esploratore di una Camera del tempo (titolo del libro autobiografico scritto assieme a Simona Guerra) senza soluzione di continuità fra sali d’argento e pixel, come tutti i veri scopritori di continenti si è chiesto fino all’ultimo: «Sono sicuro di aver visto giusto? E cosa avrò visto?».