19 gennaio 2016
In morte di Glenn Frey
Carlo Baroni per il Corriere della Sera
Era l’America che non sapeva ancora come uscire dal Vietnam. Quella che stava dall’altra parte. La più lontana dall’Europa. La California delle spiagge infinite e dei ragazzi con il surf. E una chitarra sotto le dita. Quella di Glenn Frey, da ieri, non suona più. Aveva fondato una band che ha attraversato l’Oceano e le mode. Si chiamavano Eagles. Glenn veniva da Detroit e nel 1971 incontrò Don Henley. Poi nacque la leggenda. «Glenn ha combattuto una coraggiosa battaglia nelle ultime settimane, ma purtroppo non ce l’ha fatta», stroncata da un’artrite reumatoide con complicazioni polmonari. L’annuncio sul sito del gruppo, subito preso d’assalto dai fans. Poi il ricordo della famiglia e il testo di una canzone, It’s Your World. Non la più famosa, ma quella che quella che dava i brividi a Glenn quando toccava le corde. Perché comunicava l’idea di «essere parte di qualcosa di buono, e lasciarsi qualcosa di buono alle spalle».
Glenn aveva l’età per finire nel pantano vicino al fiume Mekong. Uno dei tanti giovani americani che non ne volevano più sapere di una guerra sbagliata. E c’era chi protestava nei cortei e gli altri, come lui, che dicevano «no» con le canzoni. Anche quell’ Hotel California, diventata la sigla simbolo del successo degli Eagles. Nel testo non si trovano le immagini struggenti del Golden State, lo Stato dorato, ma l’incubo di qualcosa che sta per cambiare. L’America che perde l’innocenza. Mentre la tv comincia a trasmettere gli Happy Days che sono solo un ricordo che comincia a sbiadire. E gli American Graffiti raccontano la fine di un’adolescenza che sembrava infinita.
Gli Stati Uniti in balia dell’edonismo e della ricerca di identità che la guerra del Vietnam fa sentire più fragile e indifesa. Gli Eagles cantano le melodie della West Coast con le parole di un dramma che sta per compiersi. Welcome to Hotel California, dove «puoi lasciare libera la stanza quando vuoi ma non potrai andartene mai». Il senso di una prigionia infinita. Sulla canzone ci sarà una ridda di centinaia di interpretazioni e ci sarà chi vorrà vedere anche un invito a prendere le droghe e un’esaltazione del satanismo. Il destino da incompresi che tocca tutte le grandi band. Ma gli Eagles ormai volano più in alto del loro nome. Basta un disco, Greatest Hits, per vederli vendere più di quarantadue milioni di dischi. Saranno più di centocinquanta in una carriera che è difficile anche provare a raccontare. Un successo che li rende immortali. Glenn canta Take it easy, «non te la prendere» e sembra l’invito alla rassegnazione: «Sto correndo lungo la strada, cercando di alleviare il tuo fardello». È il 1972. Otto anni dopo la band si scioglie per tornare insieme nel 2007. Un nuovo album e concerti dal vivo. Ma non è più la stessa cosa. Desperado ha un altro suono. «Glenn era un fratello per me – ha scritto Don Henley nel suo sito – era divertente, testardo, volubile, generose, profondamente talentuoso e deciso. Aveva una conoscenza enciclopedica della musica popolare e un’etica del lavoro costante. Incrociare il cammino con lui ha cambiato la mia vita».
Frey sbarca anche nel cinema. Una parte in Jerry Maguire. A fianco di Tom Cruise, uno di quelli che sono cresciuti con le sue canzoni e, forse, l’emozione era tutta dalla sua parte. All’inizio della carriera Frey si era incrociato con Linda Ronstadt. Anche lei arrivata in California per provare a far volare un sogno. Anche lei colpita dalla sorte troppo presto. Tre anni fa ha confessato di avere il Parkinson. Un’altra pagina di America che si chiude. Gli Eagles chiudono le ali, ma continuano a volare.