Il Messaggero, 16 gennaio 2016
Reportage da Molenbeek, il covo dei terroristi in Europa
Da più parti, e da giorni, si cerca di definire la natura di quel che alcuni chiamano «scontro di civiltà» tra il mondo islamico e l’Occidente. Le stragi di Parigi, le aggressioni di Colonia, la scoperta di covi nel cuore dell’Europa hanno suscitato sconcerto, un senso diffuso di fragilità, e anche una buona dose di odio xenofobo, ancor più imbarazzante in tempi in cui l’Europa diventa più che mai approdo agognato per moltitudini in cerca di uno stato di diritto negato in patria da guerre, violenze, regimi teocratici e non.
Di ritorno da una permanenza prolungata a Bruxelles, nel cuore del cuore d’Europa, vorrei restituire alcune impressioni ricavate muovendomi tra i salotti buoni della città, la municipalità di Molenbeek, le strade dell’alta moda e quelle dei negozi più commerciali, la vita del «quartiere europeo» e l’esistenza ordinaria di una coppia iraniana costretta a realizzarsi lontano dal proprio Paese.
SOLIDITÀ
Immaginate, dunque, una giornata ideale che cominci all’ombra dei palazzi di vetro e acciaio del «quartiere europeo», dove la vita è scandita soprattutto dagli ingressi, le pause pranzo e le uscite dal lavoro di chi, a vario titolo, presta il proprio servizio presso le varie Istituzioni europee, disegnando il futuro dei paesi membri dell’Unione. Muovendoti tra quelle belle avenue, piazze e strade dominate da edifici moderni, hai la sensazione che l’Europa sia qualcosa di solido, ordinato, pacificato e anche un po’ impenetrabile. La sensazione finale è di aggirarti in una sorta di extraterritorialità separata dal resto della città, che intanto vive la sua vita, franta e meno solida di quel che sembra, considerate, tra l’altro, le potenti spinte autonomiste tra maggioranza fiamminga e minoranza vallona.
Lo capisci, non tanto percorrendo la bella avenue Louise con i suoi negozi esclusivi, a pochi passi dal quartiere europeo, ma arrivando nella strada più commerciale di rue Neuve, con i suoi promod, h&m, e i grandi magazzini City 2.
A pochi passi, c’è l’elegante place Charles Rogier. A mezz’ora di cammino, c’è la municipalità di Molenbeek oltre il canale Charleroi. Ed è proprio muovendoti tra Molenbeek, place Rogier e rue Neuve che l’Europa mostra le sue facce molteplici, irriducibili entro una misura certa e univoca.
È vero, la municipalità di Molenbeek è una realtà multietnica molto stratificata, se si confrontano i palazzi che affacciano sul canale (oggi loft e appartamenti medioborghesi) con le palazzine che raccontano il passato operaio della commune a ridosso della Chaussée de Gand e della piazza del mercato, oggi a prevalenza magrebina, ma un tempo popolata da immigrati fiamminghi, poi italiani e turchi.
I PROBLEMI
Non so come fosse la vita nella «zona araba» prima delle stragi di Parigi, però se ci arrivi oggi, in una mattina di sabato, la prima cosa che noti è un paesaggio nudo, spettrale. Pochissime le persone in giro; e le poche donne per strada quasi tutte con il velo. Nessuna diffidenza palpabile, però, nessuna ostilità. A prevalere sembra piuttosto il ripiegamento di una comunità condannata tout-court all’ostracismo. Per il resto, quel che ti colpisce è la sensazione di muoverti tra simulacri di un passato operaio ormai in disarmo dopo la crisi del settore industriale che lì ferveva fino agli ’70, e di cui il pittore Laermans, a fine ’800, ha saputo restituire il volto più infelice: paesaggi umani sordi di contadini, operai, emigranti.
Lì capisci le parole di chi spiega che il problema di Molenbeek non è tanto la radicalizzazione ma la disoccupazione, capisci come non ci sia nulla di esclusivo in ciò che è accaduto lì, e che potrebbe benissimo accadere altrove. E capisci anche la fragilità di un’Europa che non ce la fa più a garantire nemmeno le opportunità offerte ai padri.
Neppure l’Islam più arroccato sembra reggere, però, all’impatto con l’Occidente, se basta una lunga passeggiata verso rue Neuve per immergersi in una moltitudine di etnie in cui quelle stesse madri con il capo coperto vanno in giro con le figlie, non molto diverse dalle nostre stesse figlie, tra negozi affollati sino all’inverosimile.
CONFRONTI
Senti ancora di più la debolezza di quella morale ferrea e patriarcale, se ti capita, come è successo a me, di trovarti immersa in quel delirio che unisce tutti dopo aver assistito (al Palais des beaux-arts) a un film come Paradise del giovane regista iraniano Sina Ataeina Dena che, con sarcasmo crudo e corrosivo, restituisce l’ipocrisia di un regime teocratico che rivendica la propria presunta integrità esercitando una violenza sistematica sulle donne, se cioè hai avuto modo di percepire la portata di un dissenso che cova in seno a un pezzo di Islam che ancora esercita un potere ottuso e sanguinario sulle vite della sua gente.
Un dissenso che deve far paura a quello stesso potere che ne ha vietato la proiezione in Iran. Come deve far paura a un pezzo di Islam quella rue Neuve che accomuna tutti nel rito dei saldi invernali.
D’altro canto, sul fronte occidentale, diciamo, in una città che nel 2030 potrebbe diventare a maggioranza musulmana, non deve far meno paura (ad alcuni almeno) l’idea che un ingegnere dal cognome islamico e dalla professionalità ineccepibile possa ricoprire un ruolo manageriale in una grande azienda asiatica se, come mi raccontano gli amici iraniani, hanno finito per cambiare il cognome «islamico» alla figlia per evitarle le discriminazioni subite dal padre, arrivato a Bruxelles più di dieci anni fa. «E questa è l’Europa agognata» è il sottotesto di quell’amarezza.
I RISCHI
Così, l’impressione che ricavi mettendo insieme tanti pezzi di un mosaico che ha dentro altri conflitti, rivendicazioni e paure, è che lo scontro più duro, in corso non da ora ma da anni, sia uno scontro non tanto di civiltà ma di paure e fragilità in cui la convivenza e lo stato di diritto che dovrebbero qualificare L’Europa unita rischiano di perdere, mentre a guadagnarci sarà l’intolleranza più violenta.