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 2016  gennaio 17 Domenica calendario

Gli effetti collaterali del crollo del petrolio stanno superando quelli positivi. Ecco perché

Come moderni pellirossa, che facevano la danza della pioggia, gli europei hanno passato anni a implorare il cielo perché il prezzo del petrolio scendesse. Ma ora che le preghiere sono state esaudite, si scopre che anche il greggio troppo economico può farci male. Le Borse mondiali hanno perso 5mila miliardi da inizio anno, molti nostri partner commerciali soffrono, le grandi aziende petrolifere licenziano e tagliano gli investimenti, i fondi sovrani dei Paesi arabi svendono azioni anche europee: tutto questo per colpa del caos cinese ma anche del prezzo del petrolio troppo basso.
È normale, a questo punto, porsi alcune domande. Perché il ribasso del prezzo del barile preoccupa così tanto anche i mercati finanziari di Paesi importatori, come quelli europei? I benefici del petrolio a basso costo sono inferiori degli eventuali effetti collaterali? Insomma:?si stava meglio quando si stava peggio? «Attento a ciò che desideri – diceva Oscar Wilde – perché potresti ottenerlo»: possibile dunque che dopo aver sognato per anni la pioggia, ora ci troviamo solo grandine e tempesta?
Facciamo subito una premessa: che il mini-petrolio faccia bene all’Europa, che è un grande consumatore di materie prime, è fuori dubbio. Le accise sulla benzina e il super-dollaro mitigano gran in parte i benefici percepiti dalla gente, ma questo non toglie che i vantaggi sui consumatori e sull’economia reale siano importanti. Anche perché il mini-barile tiene bassa l’inflazione e permette alla Bce di continuare a stampare denaro. Purtroppo, però, ci sono anche almeno quattro effetti collaterali che a lungo andare potrebbero preoccuparci. Il primo riguarda i Paesi produttori. Il 49% delle esportazioni del Brasile, secondo i dati forniti dalla Sace, è costituito da materie prime. Il 71% dell’export russo è dato da petrolio e gas, al quale si aggiunge un 11% prodotto dai metalli. Se il prezzo del barile crolla, insieme a quello di tutte le materie prime, è ovvio che questi Paesi soffrano: le loro valute crollano, le loro Borse s’inabissano e le loro economie finiscono in recessione. Dato che questi Paesi (e tanti altri esportatori) sono importanti partner commerciali dell’Europa, di riflesso le loro sofferenze diventano dolori anche da noi. Ammesso che non succeda, in questi Stati, nulla di davvero grave: in tal caso il contagio sarebbe molto più forte.
Il secondo effetto collaterale si vede in America. Gli Stati Uniti sono diventati grandi produttori di petrolio grazie alla tecnica della «frantumazione idraulica», che permette di ricavare petrolio e gas dalle rocce di scisto. A estrarre in questo modo l’oro nero sono tante società iper-indebitate, che negli anni passati speravano di fare soldi a palate. Ma ora che il petrolio vale poco, i loro debiti diventano sempre più ingestibili: secondo Wolfe Research, con il petrolio così basso, almeno un terzo di queste aziende potrebbe dichiarare il fallimento entro il 2017. Il rischio è così elevato, che lo «spread» che le loro obbligazioni sono costrette a pagare rispetto ai rendimenti dei titoli di Stato Usa è salito fino a 1.587 punti base. Questo è un problema per l’intera economia Usa: secondo i calcoli di Patrick Artus di Natixis, il settore petrolifero (incluso l’indotto) rappresenta infatti il 20% dell’industria americana. Una frenata del comparto, dunque, toglie l’1% al Pil Usa. E colpisce l’export europeo in quel Paese.
Ci sono poi motivi più borsistici, sempre legati al petrolio, a causare i crolli di questi giorni. Il primo è ovvio: le società petrolifere pesano non poco negli indici azionari. Il settore Oil & Gas rappresenta l’11% dell’indie Ftse Mib di Milano, il 4,7% dell’EuroStoxx europeo e il 3,2% dell’S&P Usa: se il comparto soffre, l’impatto si sente dunque in tutto il listino. Anche perché se le aziende petrolifere soffrono, a rischiare sono anche le banche che (sebbene in maniera minore rispetto a un tempo) le hanno finanziate. Infine il quarto motivo di preoccupazione è legato ai fondi Sovrani dei Paesi esportatori. Per anni sono stati i «salvadanai» dove finivano i petrodollari, tanto che vantano un patrimonio pari a 7.200 miliardi di dollari. Ma ora che il petrolio vale poco e che i Paesi produttori (a partire da quelli arabi) hanno bisogno di soldi, questi fondi sono costretti a vendere parte dei loro investimenti per aiutare i loro Governi. Calcola Morgan Stanley che nel 2015 i fondi sovrani abbiano disinvestito da i mercati in giro per il mondo cento miliardi di dollari. Solo l’Arabia ha venduto 2 miliardi di azioni europee nei primi 9 mesi del 2015. Questo sta causando ulteriori vendite di azioni e obbligazioni.
Ecco dunque quali sono i motivi per cui il mini-petrolio preoccupa anche un continente, come quello europeo, che avrebbe invece solo da guadagnare. Il punto è capire se gli effetti collaterali siano in grado di superare quelli positivi. «Sotto certi livelli di prezzo il rischio c’è», ammonisce Antonio Cesarano, capoeconomista di Mps Capital Services. Ma è difficile stabilire quale sia il prezzo giusto per soddisfare i Paesi consumatori di petrolio senza distruggere quelli produttori. Una cosa è però certa: è meglio smettere di fare la danza della pioggia...