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 2016  gennaio 17 Domenica calendario

Usa e Iran, se fosse un film sarebbe “Quasi amici”

Non è crollato come quello di Berlino: il Muro tra Usa e Iran, uno dei più impenetrabili, si sta smontando pezzo dopo pezzo, mese dopo mese, con la diplomazia, e si scambiano prigionieri come sul Ponte delle Spie.
Soltanto un paio d’anni fa l’America aveva ancora nel mirino Bashar Assad e il regime degli ayatollah. Non c’era giorno che sulla stampa internazionale non comparissero articoli che descrivevano i piani d’attacco per disintegrare l’asse sciita e il pericolo atomico iraniano. Forse qualcuno se li è già dimenticati, insieme a esilaranti dosi di propaganda. Oggi Assad è ancora in sella, e con l’aiuto della Russia fa parte più della soluzione che del problema, mentre gli ayatollah, dopo l’accordo sul nucleare del 14 luglio, ottengono la fine di gran parte delle sanzioni.
Con l’Iran si fanno gli affari non la guerra, e anche per l’Italia, che il 25 gennaio ospiterà il presidente Hassan Rohani, è una buona notizia. Il nostro Paese ha visto sfumare miliardi di export per l’embargo a Teheran, da aggiungere alle enormi perdite della Libia. Un conto salato: punti di Pil ma anche costi umani, vittime, profughi, e svantaggi strategici che paghiamo con un indebolimento della proiezione all’estero. Ecco perché conquistare la prima fila in Iran non è banale. La concorrenza incalza: ieri a Teheran erano già atterrati gli emissari di Total e Shell.
La linea diretta e personale tra Kerry e Zarif funziona, i due si sono parlati al tavolo per mesi e il segretario di Stato americano, insieme all’alto rappresentante europeo Federica Mogherini, ha trascorso più tempo con gli iraniani che con qualunque altra diplomazia al mondo.
Ricostruire la fiducia tra le parti e il rispetto ha bisogno di tempo e dei tempi giusti. Questa volta li hanno trovati.
Gli effetti possono essere duraturi oltre che immediati, perché i messaggi sono chiari e senza troppe ambiguità come invece quelli che hanno caratterizzato le relazioni dell’Occidente con i suoi alleati o presunti amici nella lotta al terrorismo: ci sono voluti mesi di estenuanti trattative agli Usa per avere da Erdogan, un membro della Nato, la base aerea di Incirlik per i raid anti-Isis e ancora adesso non sappiamo con certezza da che parte stanno l’Arabia Saudita e l’opaco fronte sunnita, più in sintonia con qaidisti e jihadisti che con la stabilità e la pace.
Kerry e Zarif si possono parlare direttamente e senza fraintendimenti, forse meglio che con molti altri partner stagionati. In altri tempi l’immagine dei marines arrestati nel Golfo con le mani dietro la nuca sotto la minaccia dei fucili dei Pasdaran avrebbe innescato una crisi esplosiva, invece sono stati rilasciati in poche ore e nessuno ha osato mettere in dubbio che venissero cancellate gran parte delle sanzioni all’Iran. E dopo molto tempo ieri sono tornati a casa, in cambio di 7 iraniani, anche quattro americani agli arresti a Teheran, tra cui il reporter del Washington Post Jazon Rezaian.
Washington e Teheran non sono più nemici come prima e questa per Riad e lo stato israeliano non è, in apparenza, una buona notizia, forse neppure per il Califfato come ha sottolineato il ministro iraniano Javad Zarif. Certo per i sauditi sarà più complicato avere dalla loro parte gli Stati Uniti che pure sono il grande protettore della dinastia araba da più di 70 anni. Così come Israele deve interrogarsi se non ha sbagliato qualche cosa nei suoi rapporti con gli Usa: Kerry da tempo parla più volentieri con Zarif che con Netanyahu.
Ma se è stato abbattuto il muro della diffidenza tra Iran e Stati Uniti non è certo rinata l’antica alleanza dei tempi dello Shah, che fu per 40 anni il guardiano del Golfo. Devono ancora riaprire le ambasciate, molti veti americani restano e Washington mantiene tutte le sanzioni ai Pasdaran: l’embargo alle società amministrate dalle Guardie della Rivoluzione, un settore assai consistente dell’economia iraniana, sarà quasi certamente motivo di frizione con gli alleati europei.
Le sanzioni si annullano ma non può essere cancellata con un colpo di spugna una lunga storia di ostilità cominciata con la rivoluzione iraniana di Khomeini nel 1979 ed esplosa con la cattura dei 400 ostaggi nell’ambasciata americana: una crisi durata 444 giorni che fu seguita negli Usa come una sorta di trauma nazionale e allora agevolò la vittoria alle presidenziali di Ronald Reagan su Bill Carter nel novembre 1980. È passata ben più di una generazione: il 60% degli iraniani sono nati dopo la rivoluzione, molti ricordano male anche la sanguinosa guerra del Golfo con l’Iraq e ora intravedono una grande opportunità di cambiamento. Senza farsi troppe illusioni: la storia dell’Iran, ricorda il filosofo Dariush Shayegan, oscilla sempre come un pendolo tra Oriente e Occidente.
Ma la fine delle sanzioni rimescola le carte nel gioco strategico mediorientale. Non piace soprattutto a chi aveva puntato sull’isolamento di Teheran come a una sicura rendita di posizione: la vittoria della diplomazia è la più incisiva sconfitta per coloro che a Est come a Ovest credono in un inesorabile scontro tra civiltà.