Avvenire, 17 gennaio 2016
Desert Storm, 25 anni dopo facciamo un bilancio
Venticinque anni fa tutto appariva più semplice. Era il 17 gennaio del 1991 e una coalizione composta da 35 nazioni assiepate nella penisola arabica dava il via all’operazione Desert Storm, la più imponente azione militare alleata dalla fine della Seconda guerra mondiale allo scopo di cacciare dal Kuwait le forze occupanti irachene che avevano invaso il piccolo emirato arabo il 2 agosto dell’anno precedente. Il mandato dell’Onu non prevedeva la caduta di Saddam Hussein e il presidente Bush preferì – in ossequio alla ben oliata dottrina del containment adottata nei confronti dell’Unione Sovietica da Truman e poi da Eisenhower – un’azione di contenimento, nel timore che un vuoto di potere a Baghdad potesse provocare un effetto domino in tutta la regione. Fu l’ultimo residuo di saggezza da parte della Casa Bianca, che anche Clinton nel suo doppio mandato miracolosamente conservò. A quell’epoca quel giovanotto di etnia kindita yemenita di nome Osama, figlio del miliardario Mohammed bin Awad bin Laden, aveva 34 anni e da un paio d’anni si era unito ai mujahiddin afghani e da poco aveva fondato un movimento paramilitare sunnita chiamato al–Qaeda avvalendosi della guida ideologica di Ayman al-Zawahiri. Ma nessuno all’epoca ci fece caso. Il quadro geopolitico mondiale, come si è detto, induceva a una educata fiducia.
Caduto il Muro di Berlino, collassato l’impero sovietico, la superpotenza americana dominava il mondo come duecentocinquant’anni prima il naviglio britannico fendeva sovrano le acque di tutti i mari e il poeta James Thomson dava vita ai versi del canto patriottico Rule, Britannia! rule the waves. Ma quella del 1991 fu un’illusione di stabilità mondiale. Dieci anni dopo la Storia prendeva un tragico abbrivio con l’attentato alle Twin Towers a New York, il presidente repubblicano George W. Bush dava il via in Afghanistan all’operazione Enduring Freedom e il nome di Osama Benladen risuonava in tutto il mondo insieme ad al–Qaeda, la sigla del terrore che si era intestata l’ideazione e la responsabilità degli attentati.
Due anni dopo una coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti invadeva l’Iraq, questa volta con l’obiettivo di deporre Saddam e attuare quel regime changeche nei piani della Casa Bianca pareva indispensabile. Con il senno di poi, fu proprio quella guerra a scoperchiare il vaso di Pandora mediorientale. Dalle sabbie mobili irachene non ci si è ancora tirati fuori, ma parlare oggi di Iraq ha come un retrogusto beffardo: la carta geografica del Medio Oriente, segnatamente quella suddivisione nata dall’accordo Sykes–Picot di cent’anni fa con il quale Francia e Regno Uniti si spartivano le singole zone d’influenza e dalla dissoluzione dell’impero ottomano emergevano nazioni tracciate con il righello nella sabbia del deserto come Giordania, Iraq, Siria, Arabia Saudita oggi ha scarso valore.
Esiste invece una sorta di Siraq, agglomerato a macchia di leopardo di zone della Siria e dell’Iraq controllate o anche solo infestate da un nuovo attore sorto nell’ultimo anno e mezzo, quel Daesh che proclama attraverso la violenza e il terrore uno Stato islamico dal Maghreb fino al Pakistan sot- to la guida del califfo al-Baghdadi. Una sigla che ha perfino attizzato la gelosia della seconda generazione di qaedisti, preoccupati (come dimostrano i recentissimi attentati sparsi un po’ in tutto il mondo) di non farsi sopraffare politicamente dal nuovo concorrente. Oggi l’intero quadrante è scosso da turbolenze etniche, politiche, belliche, religiose cominciate dodici anni fa con la caduta di Saddam e proseguite con le fallimentari primavere arabe del 2011. Rispetto a venticinque anni prima il quadro è quasi irriconoscibile e le soluzioni non passano più attraverso le coalizioni di volenterosi ma imboccano sentieri tortuosi e controverse alchimie in una sorta di guerra di tutti contro tutti nella quale si è affiancato un grande protagonista che all’epoca della Prima guerra del Golfo non c’era, la Russia di Vladimir Putin.
Ma dovremmo aggiungere anche un nuovo importante protagonista, giusto ieri emerso dal lungo embargo economico e dall’isolamento politico: l’Iran del conservatore moderato Hassan Rouhani. Il cui arrivo sul proscenio mediorientale ha già scatenato la reazione del più acerrimo dei suoi rivali, quell’Arabia Saudita che in Teheran, culla dell’islam sciita, vede da sempre il nemico naturale del vasto mondo sunnita.