il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2016
Isabella Rossellini, l’attrice che governa i cani come se fossero attori, si racconta
La madre che di fronte a Oriana Fallaci citava il Dr. Schweitzer: “La felicità è fatta di buona salute e cattiva memoria”. Il padre che confessava a Enzo Biagi di non amare il cinema: “Non me ne frega nulla” e di non rivedere i propri film: “Se mi piacciono sono fottuto”. I ricordi di Isabella Rossellini, erede di Roberto e di Ingrid Bergman: “Sei il figlio ‘di’ per tutta la vita” non confinano mai con il rimpianto: “Sono contentissima di quello che ho fatto, mi è andata benissimo, sento di essere felice. Dirlo è pericoloso. Se sei troppo allegro ti incasellano subito tra i cretini. Se non fai il bastian contrario c’è un immediato sospetto di stupidità. La leggerezza è nemica. In Francia, ma soprattutto in Italia. Siete abituati a lamentarvi qui. Se non ci si lagna – pare – non si è abbastanza seri. In America recriminare è proibito. ‘Se non hai qualcosa di positivo da dire – suggeriscono – taci’”. Dopo 50 film, due matrimoni, molti viaggi e un alfabeto di incontri che corre da Avedon a Zemeckis, Rossellini, 63 anni, recita ora in un film di tre sole lettere. In Joy di David O. Russell (nelle sale dal 28 gennaio con 20th Century Fox) – storia dell’imprenditrice che inventò il Miracle Pop, il Mocio, lo straccio con secchio annesso e divenne miliardaria – Isabella è Trudy, compagna di Robert De Niro, padre della ragazza interpretata da Jennifer Lawrence. Rossellini beve acqua, ride spesso, ogni tanto si volta verso la finestra mentre il sole scende su piazza di Spagna e denuncia una certa indifferenza verso la politica: “Non so più neanche che partiti ci siano”.
Come è stato lavorare con De Niro?
Avevo paura. ‘Mamma mia – mi sono detta – sono l’ex moglie del suo miglior amico’.
Martin Scorsese, sposato nel 1979.
Bob fu testimone di nozze e io e Martin avevamo poi divorziato. Negli anni qualche volta mi era capitato di incontrare De Niro con altre persone. Era stato gentile e caloroso, ma insomma, prima di iniziare Joy un po’ intimorita ero.
Temeva che De Niro non la volesse?
Sapevo che se ero stata scelta per il film, lui non poteva essersi opposto.
Cosa glielo faceva pensare?
Si chiama De Niro. Non credo che divida la scena con un’attrice con cui non vuole lavorare.
Come è andata?
A film finito ho telefonato a Martin: ‘Sai che Bob è diventato buono?’ Era così benevolo sul set, così collaborativo. De Niro ama gli attori. Li sostiene. Ogni tanto mi dimenticavo una battuta o non mi veniva da piangere al momento giusto e lui sorrideva comprensivo: ‘Sono cose normali, non importa’.
Ed erano cose normali?
Cose normalissime, ma tra creare un clima lieto e alimentare tensione c’è differenza.
De Niro ha scelto di creare un clima lieto.
David O. Russel lo chiamava ‘The Godfather’. Sul set, De Niro era il padrino in tutti i sensi. Il padrino che sorride, sdrammatizza, saluta prima di essere salutato e ha l’autorità, il passo leggero della consapevolezza. Non so se in passato fosse più ispido, ma con i suoi colleghi è solidale. Forse si ricordava delle sessioni di Martin.
Quali sessioni?
Quelle in cui Scorsese sottoponeva gli attori a provini estenuanti e poi, trascorse alcune ore, diceva soltanto: ‘Non lo scelgo’.
De Niro, Scorsese, Harvey Keitel.
Erano sempre insieme. Sono invecchiati bene.
Sui set di Mean Streets e di Taxi Driver le discussioni creative erano all’ordine del giorno.
Ma nel cinema si è sempre discusso.
E una discussione non è un litigio?
Discutere è sano, dalla discussione nascono le idee. Sapete cosa dicevano Age e Scarpelli a chi preoccupato dal tono della loro voce bussava alla porta per sapere se durante le sessioni di sceneggiatura si stessero accapigliando? ‘Stiamo solo lavorando’.
Secondo le cronache è molto litigioso anche David O. Russell. Regista de Il lato positivo e diAmerican Hustle, candidato all’Oscar in 5 occasioni e protagonista di risse epiche con George Clooney e Lily Tomlin.
Quella verbale con Lily Tomlin è in rete e mi dicono che sia effettivamente accesa.
Accesa è un eufemismo.
Io con David mi sono trovata benissimo e liti non ne ho viste. Lavora in maniera diversa da tutti gli altri. Fa molte prove e vuole che gli attori, anche quando non devono recitare, facciano gruppo e restino insieme. Eravamo sempre convocati, anche senza scene da girare.
Le è pesato?
Mi mancava casa mia, mi mancavano i miei figli e i miei cani, ma stare sul set così a lungo mi è piaciuto.
I figli e i cani.
Sono andata a trovare Depardieu. In mezz’ora ho insegnato al suo cane a stare seduto e a riportare il guinzaglio. Lui era sconvolto: ‘È come spiegare la scena a un attore, Gerard, pensaci. Dai dei comandi, delle indicazioni’.
Torniamo al set di Joy?
Russell ci ha valorizzato. Si è creato un affiatamento sorprendente. A forza di passare tanto tempo insieme si affinano i meccanismi, cadono le diffidenze e le paure, ci si amalgama.
Non succede sempre.
Spesso sul set non ci si conosce e devi interpretare la moglie di un attore che hai conosciuto 5 minuti prima. Negli occhi dell’altro leggi il vuoto, lo percepisci. Questo rischio nei film di Russell non c’è. Lui scrive durante le riprese, cambia il copione a seconda delle esigenze del momento, modella i personaggi in corso d’opera.
Anche il suo personaggio?
In Joy sono diventata italiana perché sono nata in Italia. Sulla sceneggiatura il particolare non c’era. Mi guardava, mi studiava e poi gli veniva un’idea: ‘Quando parli, tu punti sempre il dito in aria. È una cosa che fate nel vostro paese? Falla anche nel film’.
E lei?
Non so se in Italia puntiamo il dito per abitudine mentre parliamo, però gli ho dato retta.
Con Bradley Cooper nel film recita anche Jennifer Lawrence, già premio Oscar come miglior attrice protagonista per Il Lato positivo.
È candidata anche per l’interpretazione di Joy Mangano e spero bissi quel successo. È un’attrice forte, indipendente, straordinaria. Nel film la redarguisco, le parlo con autorità.
Ha detto che Lawrence la fa pensare a sua madre e che come aveva fatto Brando per l’universo maschile, l’attrice ha riscritto per il cinema il concetto di femminilità moderna.
L’ho detto perché lo penso. Anche il personaggio che Jennifer interpreta nel film, la sua determinazione, mi riporta a mia madre.
Di lei, sua madre Ingrid Bergman diceva: “È irruenta e passionale, tutta suo padre”. È stato difficile confrontarsi con una madre così.
Nei miei confronti all’inizio ci fu un vero e proprio astio. ‘Non è come la madre’ scrivevano. Come se avessi dovuto essere veramente Ingrid Bergman in Casablanca o evocare l’Alicia che bacia Cary Grant in Notorius. Mi si chiedeva quello. Mi si chiedeva l’impossibile.
“Si è per sempre figli di” ci ha detto.
C’erano nostalgia e desiderio di quelle atmosfere e i giornalisti mi proiettarono addosso l’immagine di mia madre. Ci si aspettava una copia dei suoi personaggi e io una copia non potevo essere.
Esordì al cinema con Vincente Minnelli in Nina.
Fu quasi un caso. Mia madre mi disse: ‘Vieni qualche giorno con me’ e mi ritrovai davanti alla macchina da presa.
I fratelli Taviani però la scelsero davvero.
Per Il prato. In un certo senso ero figlia del cinema, non dovevo scoprire niente. Non è che smaniassi dalla voglia di fare l’attrice. Però arrivarono i Taviani con la loro proposta e mia madre mi consigliò di accettare: ‘Sono meravigliosi, non puoi perdere l’occasione di vivere una simile avventura’. Quindi accettai e a film finito, senza aspettarmelo minimamente, mi ritrovai investita da critiche tremende. Mostruose. Mi ricordo a cosa pensavo in quelle settimane.
A cosa pensava?
Che non avrei più fatto l’attrice: ‘Per carità – mi dicevo – mai più. Mai più’.
Il prato è del 1979.
I Fratelli Taviani erano reduci da Padre Padrone. Un trionfo di critiche, Palma D’oro a Cannes nel 1977.
Il film che proprio Scorsese aveva detto di aver visto: “Per due volte consecutive”.
Il prato non ebbe lo stesso successo e quando un film va peggio del precedente capirne i perché è difficile. Fu un problema di marketing? Fui inferiore alle aspettative? Chi lo sa?
Poi cambiò idea e invece di ritirarsi, recitò ne Il Pap’occhio.
All’inizio il lavoro mi rendeva nervosa. Sul set avevo un’agitazione terribile. Oggi un po’ meno. Sono più sicura: ‘Piano, piano – mi dico – riuscirò a farcela anche stavolta’. Sul set de Il Pap’occhio, ambientato nella reggia di Caserta ci divertimmo come pazzi. I miei amici italiani di oggi sono quelli di allora: De Crescenzo, Arbore, Benigni.
Il Pap’occhio fu sequestrato per vilipendio alla religione.
Processato, confiscato, avversato. Una cosa da ridere. In Tribunale, Benigni avvicinò il giudice Infelisi e gli bisbigliò: ‘Il film è talmente cattolico che Arbore ha preso i soldi dal Vaticano’.
Con Arbore aveva lavorato a L’altra Domenica.
Improvvisavamo sempre. È sempre stato un grandissimo talent scout. La libertà davanti alla camera l’ho imparata da Renzo. Aveva un metodo di lavoro che somiglia a quello di Russell.
Joy, ha detto, è un film “femminista”.
È la storia di una ragazza che fa da sé. Di una donna che non vuole il principe azzurro. Dell’invenzione di un singolo che si trasforma in aiuto per milioni di persone.
Come sceglie un film?
Se è per il cinema, più che il film scelgo il regista. Il suo nome. I suoi precedenti.
In qualche modo capitò anche a sua madre.
Vi riferite alla lettera che lei gli scrisse dall’America immagino. ‘Caro Signor Rossellini, ho visto i suoi film Roma città aperta e Paisà e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo ‘ti amo’, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei’. Una lettera mitizzata da chi voleva disegnare un tipo umano. La donna che avrebbe dovuto cedere per diritto divino al fascino latino e degli italiani si sarebbe dovuta innamorare per forza. La storia era completamente diversa. Lei non gli aveva detto: ‘Ti amo’. Non si stava offrendo sessualmente. Aveva solo un’ammirazione professionale sconfinata per il regista.
E gli scrisse. Lei lo ha mai fatto? Ha mai telefonato per dire “Voglio lavorare con te”?
Se alzo il telefono io mi ridono in faccia. Ma a livelli diversi la dialettica è normale. Mia madre incontrò Ingmar Bergman a Cannes nel 1975 e gli infilò un bigliettino nella tasca della giacca per poter lavorare con lui. Lui la chiamò. Accadde veramente. Come penso accada se Jennifer Lawrence vede un film e lo trova bello. Chiama il regista e gli dice: ‘Voglio lavorare con te’. Pensate che per timidezza non glielo dica? Certo che glielo dice.
È vero che David Lynch, suo antico fidanzato, le disse “Tu somigli a Ingrid Bergman” la prima volta che vi incontraste?
Verissimo. Non sapeva chi fossi, qualcuno lo avvertì: ‘Ma sei cretino? Lei è davvero la figlia di Ingrid Bergman’. Non era una novità comunque. Succedeva spessissimo, soprattutto sui taxi, al momento di pagare: ‘Oddio, oggi ho portato Ingrid Bergman’.
Per Lynch recitò in Velluto blu e in Cuore Selvaggio.
In Italia Velluto blu non fu capito per niente. E contribuì a farmi venire voglia di cambiare aria. Fu una botta dura. Un critico molto famoso, un amico dei miei genitori, una persona di cui non voglio fare il nome, scrisse cose durissime su di me.
E cosa scrisse?
Che avevo partecipato a un film pornografico e che ero la figlia disperata di una coppia memorabile ansiosa di avere l’attenzione della stampa e della gente attraverso facili scorciatoie. Il critico era influente e gli altri si accodarono. Mi trattarono da povera donna che avrebbe fatto di tutto per avere una parte. Da attricetta con cui nessuno voleva lavorare. Da infangatrice del buon nome di Rossellini, di uno dei più grandi registi italiani di sempre. Poi dicono: ‘Perché te ne sei andata dall’Italia? Perché qui hai fatto pochi film?’. La risposta risale anche ai giudizi severi di allora e al tempo, a metà degli anni 80: ‘Rimani qui con noi’ comunque non me lo disse nessuno. Le produzioni avevano paura ad assumermi. ‘Torna’ lo hanno detto con vent’anni di ritardo, dopo una carriera costruita in America. Poi ogni tanto torno. Farò una cosa per la tv con Bibi Ballandi. Mi ha chiamato il 4 gennaio. Bibi è rapido di testa. Veloce. Concreto. ‘Chiacchiere corte, tagliatelle lunghe’ dice. E io concordo.
Per Velluto blu, Lynch venne candidato all’Oscar. Oggi il film è visto come tappa fondamentale del regista. Che idea si fece allora delle critiche? A cosa pensò leggendole?
Non certo che fossi diventata una puttana all’improvviso. Pensavo che Lynch avesse girato un bel film, coraggioso, indipendente e piccolissimo. Non era The elephant man, non era un’opera difficile come Eraserhead e non era un fallimento commerciale come Dune. La reazione della critica forse puoi prevederla, quella del pubblico quasi mai. Pochi mesi fa camminavo per New York con lo stesso Lynch. A un tratto mi prende per un braccio: ‘Vieni qui, ti voglio far vedere una cosa’. Era una lunghissima fila di persone. Tutte in fila per Velluto Blu. Lynch è un grandissimo regista ed è anche un pittore straordinario. Dipinge. Non solo al cinema. Sono felice che rifaccia Twin Peaks. Twin Peaks senza Lynch è solo una scatola vuota.
Registi italiani che stima?
Tanti, fare classifiche sarebbe sciocco. Mi piace molto Saverio Costanzo che è intelligente, ha una bella faccia da attore, somiglia un po’ a Clive Owen ed è un mio amico.
Zalone?
Ho appena visto Quo Vado?. Ero curiosa. Mi è piaciuto. Mi sono divertita.
I comici le sono sempre piaciuti.
Oriana Fallaci non me lo perdonava, si arrabbiava moltissimo. Ma io con Mel Brooks ridevo fin dai titoli: ‘La storia del mondo, capitolo primo’. Bastava quello.