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 2016  gennaio 17 Domenica calendario

Cosa resta di Ebola

Il virus Ebola si burla di noi. In particolare sembra ci provi gusto a mettere in ridicolo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che con una certa enfasi tre giorni fa (il 14 gennaio) aveva dichiarata finita l’epidemia in tutta l’Africa occidentale. Poche ore dopo è arrivata la beffarda smentita, sotto forma di un esame condotto sul cadavere di una studentessa della Sierra Leone, morta nel nord del paese dopo una breve malattia: ancora una volta si tratta di Ebola. Lo stesso copione si era già ripetuto, prima d’ora: due volte in Liberia e una in Guinea.
I comunicati ufficiali giocano con le parole, tutte le volte che si tratta di annunciare la fine dell’emergenza. Ora non si usa più il termine ebola-free, ma si preferisce dichiarare “interrotta la trasmissione del virus”. E quando poi il virus rispunta fuori, che cosa si dice? Che è cominciata una nuova trasmissione, e quindi una nuova epidemia, anche se si tratta di pochi casi isolati.
La verità, che non si ha il coraggio di dire, è semplice: la presenza del virus non è più epidemica, ma è diventata endemica, cioè stabile, in Africa occidentale; e senza un intervento deciso per estirparla, la situazione rischia di diventare irreversibile. Vediamo di capire.
Ebola ci ha abituato ai colpi di scena. Prima si è scoperto che nei sopravvissuti il virus rimane per molti mesi nello sperma; poi è risaltato fuori all’improvviso nell’iride di un medico americano e nelle meningi di una infermiera inglese, entrambi guariti da tempo. Testicoli, occhio e cervello sono quelli che gli esperti chiamano “santuari immunologici”, perché protetti da barriere nelle quali le difese dell’organismo, come anticorpi e cellule bianche del sangue, non entrano.
Questo significa che i circa 17 mila guariti costituiscono per la prima volta un serbatoio umano di virus in Africa occidentale. Non c’è più bisogno che Ebola faccia ogni volta il salto dai pipistrelli all’uomo, come in passato: i casi sporadici che continuano a emergere sono di origine umana, probabilmente per lo più per trasmissione sessuale.
Questa è una catastrofe, se la si lascia incancrenire. Non solo per le singole vittime di tanto in tanto, in una regione dove tuttora muoiono a migliaia di malaria, di tubercolosi o di parto. Ma anche perché un Ebola endemico costringerebbe a mantenere un’allerta e una mobilitazione costanti, pena il rischio che un caso sporadico faccia ripartire il contagio su larga scala. È come se, dopo aver domato un incendio in una foresta, si lasciassero emergere qua e là dei focherelli: se non si interviene con decisione a spegnere tutto, il rischio è altissimo.
Che cosa si potrebbe fare? Certamente occorre investire rapidamente le grosse somme promesse da Banca mondiale e simili istituzioni per “ricostruire” i tre Paesi colpiti, o meglio per correggere almeno le più grossolane storture prodotte dallo sfruttamento neocoloniale, senza le quali l’epidemia non sarebbe mai cominciata. Ma sono tempi lunghi e intanto, oltre a tenere alta la guardia, bisogna tagliare le gambe al virus.
L’unica nota positiva sul fronte della ricerca è la disponibilità di un vaccino, di cui esistono diverse forme industriali, per una delle quali sono stati pubblicati su Lancet non solo dati di sicurezza, ma anche di efficacia nell’uomo (oltre che sui primati), che sarebbero sufficienti a giustificarne l’uso in condizioni di necessità.
I detentori dei brevetti tentennano a richiedere l’approvazione finale da parte delle agenzie regolatorie americane ed europee (Fda ed Ema), incerti su quale sia la strategia commerciale migliore.
Le autorità sanitarie però, Oms in testa, non dovrebbero esitare oltre a mettere in campo l’unica arma disponibile per interrompere definitivamente la trasmissione di Ebola nella popolazione locale: la vaccinazione di massa. Le risorse per pagare quest’ultimo sforzo ci dovrebbero essere, visti i miliardi stanziati per gli aiuti. E ci dovrebbe anche essere, dopo le amare lezioni apprese, la convinzione che gli interventi devono essere decisi soprattutto in ragione della salute pubblica, locale e globale.
A volte anche a prescindere se non in contrasto con gli interessi commerciali immediati.