il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2016
Nella polveriera di Hebron, dove la guerra si fa per strada
Ha attraversato il check-point, e con un coltello, all’improvviso, si è scagliata contro un soldato, ha dichiarato l’esercito. Ero dietro di lei, ed era a mani alzate, ha urlato: Non ho nessun coltello!, ha dichiarato un testimone, abbiamo perquisito il corpo, ha rettificato l’esercito, e aveva un coltello in borsa. È il 25 ottobre, a Hebron. E l’unica altra certezza è Dania Ersheid, 17 anni, a terra, il velo bianco, diventato mezzo rosso. Ha in collo otto proiettili. Rantola per venti minuti, senza soccorsi. Muore. Un poliziotto, in primo piano, beve un caffè.
In nessuna città israeliani e palestinesi sono così lontani come qui in cui abitano gomito a gomito. Circa 600 coloni, protetti da 2mila soldati, vivono incuneati tra 180mila palestinesi, e da ottobre questo è l’epicentro di una specie di Intifada che nessuno ancora sa se davvero sarà un’Intifada, alla fine, ma intanto macina oltre un morto al giorno.
A Hebron sembra di stare in guerra. Ognuno ha con sé una ricetrasmittente che ogni venti, trenta minuti gracchia notizie di scontri, sparatorie, incidenti. E a ogni nuovo morto si balla, si brinda – è l’unica cosa che israeliani e palestinesi hanno in comune. Ognuno celebra chi uccide l’altro.
Il padre di Dania ha 49 anni, un giubbotto nero sdrucito, una camicia di flanella, la barba sfatta. Si chiama Jihad, è magro, minuto, logoro, e ha una copisteria che in realtà è una fotocopiatrice sola, all’ingresso, in fondo a un vicolo lercio, invece del cartellone con le offerte speciali ora c’è Dania sullo sfondo della moschea di al-Aqsa, l’aria timida e gli occhi chiari. Al muro, un ritratto di bin Laden e uno di Saddam – che qui è un eroe, perché nella prima guerra del Golfo lanciò 39 missili su Israele, “e noi eravamo tutti sui tetti a fare il tifo”, ricorda. Ti offre il caffè in bicchieri di carta bianchi e neri, a scacchi, come la kefiah. A 38 giorni dalla morte della figlia, non ha una lacrima. È tutto ricompreso nel ruolo del padre della martire, risponde impeccabile alle aspettative sociali: è orgoglioso, e forte, pieno di energia, è un simbolo di battaglia e resistenza, non di dolore e sconfitta. Solo quando si avvicina alla porta, i vetri che sono tranci di cartone, e incrocia per un secondo lo sguardo della figlia, impercettibile, si incrina. Ma non è che un momento. Il fotografo gli chiede di spostarsi un passo più a destra, e subito, fiero, recupera l’espressione del padre della martire. Avere un martire in famiglia, qui, è un onore. Un martire è un segno di Dio. Le strade del Medio Oriente sono tappezzate di foto di ragazzi giovani – quelli di Hamas, di Hezbollah, sono in divisa, tutti armati, tutti muscolosi. Solo dopo un po’ ti accorgi che il corpo, in realtà, è sempre lo stesso, incongruente con quei volti di adolescenti: sono fotomontaggi.
In battaglia, sono tutti malconci e in ciabatte.
Le camerette che lasciano, ancora piene di orsi di pezza.
“Era una ragazza come mille altre”, racconta Jihad mostrando i disegni di Dania. Palloncini, cigni, Gerusalemme dietro il filo spinato. Il tratto infantile. Un pupazzo di neve. “Amava dipingere. Era all’ultimo anno delle superiori, voleva diventare ingegnere”, dice. “Tutto qui”. Aveva due sorelle e cinque fratelli. “Ma era una normalità solo apparente”, aggiunge. “La normalità di Hebron. In cui l’esercito è ovunque, è a ogni angolo. Per garantire la sicurezza, in teoria: ma è evidente a tutti che è qui per complicarci la vita con ordini che cambiano ogni minuto, e indurci ad andare via”, dice. “Se l’obiettivo è la sicurezza, è la sicurezza di Israele. E cioè la nostra eliminazione”.
La città vecchia, che è quella contesa, perché ospita la tomba di Abramo, patriarca comune a ebrei e musulmani, è una città fantasma: è tutto chiuso, sbarrato e in rovina. In teoria è una zona militare, ma gli ordini non sono pubblici, per cui non sai mai cosa è vietato e cosa no. Un momento passi, il momento dopo no. Sembra di vivere in un rapporto di Amnesty International, qui: Hebron è tutta un checkpoint, tutta un controllo, una mitragliatrice puntata addosso, cammini tra questi coloni che ti sputano, ti insultano, ti tirano di tutto, pietre, spazzatura. Olio. Olio bollente. E l’accesso è vietato alle auto, devi caricarti tutto in spalla. E se ti si rompe il frigorifero, se ti si rompe una cosa qualsiasi, non puoi comprarne uno nuovo, perché i checkpoint sono troppo stretti, non entra, né puoi ripararlo, perché non puoi chiamare un idraulico, qui, un elettricista: l’accesso è vietato ai non residenti. L’accesso è vietato anche alle ambulanze: Hebron è uno di quei posti in cui muori al checkpoint. Ma poi, appunto: in realtà è una finta zona chiusa. Se vuoi accoltellare qualcuno, semplicemente, passi dal retro. “Ma il resto della città non è molto diverso”, dice Jihad. “Sembra normale, ma hai soldati, raid ovunque. E soprattutto, se hai vent’anni non hai niente. Un campo di calcetto. Un parco, niente. L’unico svago, qui, sono le manifestazioni. Gli scontri con l’esercito”, dice. Quando il 25 ottobre i soldati sono arrivati a casa sua, in piena notte, è andata ad aprire la figlia Tamar. Si è piazzata sulla porta e ha detto: E ora sparatemi come avete sparato a mia sorella. Ha 6 anni.
Molti palestinesi, in realtà, sono contrari a un’altra Intifada. Senza una strategia, dicono, e con Hamas e Fatah, come sempre, ai ferri corti, impegnate in un’unica battaglia, quella per trovare un successore a Mahmoud Abbas, che ha 80 anni, ormai, è tutto inutile. Accoltelli, e vieni ucciso. E anzi, offri a Israele quello che cerca, dicono: il pretesto per nuove confische, nuove demolizioni in un momento in cui l’attenzione internazionale è concentrata altrove. Dall’inizio di ottobre l’unica differenza, a Hebron, è che l’esercito nella città vecchia ha chiuso così tante strade che adesso per rientrare in casa ti tocca passare da tetti e finestre. “Ma attacchi così casuali, imprevedibili, sono l’unica cosa capace di terrorizzare gli israeliani e costringerli al negoziato, perché sono attacchi contro cui non esiste difesa”, dice Jihad. “Contando anche i rifugiati, siamo 12 milioni. Siamo più degli israeliani. E quindi, anche a spararci uno a uno, vinciamo noi”.
38 giorni dopo, della vita di Dania sembra già non essere rimasto più niente. Ricordi smozzicati, e solo questa foto slavata dalla pioggia all’angolo di casa, su un muro spoglio, di là da una barriera di lamiere un fosso di randagi e spazzatura. Non aveva mai visto il mare. Aveva riempito una bottiglia di terra colorata, metà bianca metà blu, e incollato al vetro delle conchiglie.
Quando il 26 ottobre gli hanno detto che un ragazzo di 22 anni, Raed Jaradat, aveva accoltellato un israeliano in nome di sua figlia, Jihad non si è meravigliato. Non si conoscevano. “Ma qui uno viene ucciso e un altro ti vendica. “Siamo un popolo unito”.
I funerali di Dania e Raed sono stati celebrati insieme. E sono stati trasformati in un matrimonio: con musica, canti, balli. Abbracci e congratulazioni. “Ma non è stata una festa per la morte degli israeliani, ovviamente. Piuttosto una festa per la nostra capacità di vivere”, dice ora Saket, 53 anni, importatore di marmo, nella sua bella casa addobbata di foto del figlio. Perché questa del matrimonio di Dania e Raed è una storia di cui i palestinesi, molto attenti all’immagine internazionale, non vogliono parlare. Hai difficoltà a trovarti un traduttore. “È stata una cosa istintiva, non ha alcun significato. Tutta questa Intifada è una cosa istintiva”, dice. “Bisogna sfidare l’occupazione continuando a vivere, perché non si resiste da morti”. Ha 42 anni, ed è uno degli attivisti più noti. Sostenitore della non violenza. Fondatore di uno dei tanti comitati popolari nati alla fine della seconda Intifada per superare lo stallo tra Hamas e Fatah, che ormai non si occupano che dei propri interessi, dei propri affari, inconfondibili, con le loro auto sportive senza targa, tutti imprenditori: e lasciano fare, usano gli accoltellamenti, gli scontri come valvola di sfogo, lasciano che i ragazzi, per una volta, si sentano protagonisti, ma attenti a impedire ogni iniziativa politica, consapevoli che una nuova Intifada finirebbe per travolgere prima di tutto loro – ma gli attivisti che avrebbero dovuto sostituirli, d’altra parte, non li ascolta più nessuno: perché sono divisi come e più di Fatah e Hamas. Si beccano su tutto. E neppure per questioni politiche: per questioni di ego. Si accusano di bere alcool, di tradire le mogli. Molestare le straniere. E non li ascolta più nessuno. E dopo cosa farai?, chiedo al figlio di Badia, che ha 17 anni ed è all’ultimo anno di scuola. Mi risponde: Il martire.
Perché diventare martire conferisce prestigio sociale. La tua casa, all’improvviso, diventa la casa di Shahid Raed, il Martire Raed, come fossi un dottore, un luminare. Uno sciamano. La casa di un vecchio saggio presso cui trovare consiglio e conforto.
“Ero sotto shock. Ma poi ho letto quello che aveva scritto su Facebook: Immagina se fosse stata tua sorella. Perché Dania non è stata solo uccisa, ma perquisita, spogliata e umiliata. E ho capito che Raed aveva difeso la sua innocenza, la sua dignità. E mi sono sentito meglio”, dice il padre.
Raed, dice, era un ragazzo come mille altri. Studiava economia, andava in palestra. Un ragazzo estroverso e solare. Poi però, certo, aggiunge: era una normalità solo apparente. “La normalità di Hebron. In cui studi ingegneria, medicina, informatica, ma sai bene che non troverai mai un lavoro. Non hai alcuna prospettiva, qui. Tutto quello che vedi è stato comprato con prestiti e mutui. E né hai alcuna prospettiva politica. Perché la verità è che dipendi da chi ti tiene prigioniero: da Israele, e dall’Autorità Palestinese, che gestisce l’occupazione per conto di Israele. L’unico lavoro possibile, qui, è in Israele come muratore, o nel settore pubblico. In entrambi i casi, è necessario un tesserino rilasciato dall’intelligence, con cui si certifica che non sei pericoloso. E cioè che non sei impegnato politicamente. Raed non era mai stato a Gerusalemme. Non aveva mai visto il mare. “Non l’avrei mai immaginato. Si è vestito tutto elegante, quella mattina, si è profumato, è venuto a salutarmi. Poi ha salutato sua madre. Le ha chiesto: Come sto? Ed è andato ad accoltellare un soldato”, dice, ed è l’unico momento in cui cede, e singhiozza: il momento in cui quel ragazzo che sorride in smoking dalla foto in cornice è ancora solo suo figlio, e non già il Martire Raed.
Ma non è che un momento. “Non militava in nessuna organizzazione. Ma questa è una generazione che conosce solo la violenza e l’umiliazione. Ogni giorno un’ingiustizia. Accumuli, accumuli… E alla fine reagisci”, dice. “Quando sono arrivati i soldati, il 26 ottobre, in piena notte, il comandante mi ha stretto il collo, mi ha urlato: Non venirmi a dire che non sapevi niente! Che non avevi intuito che ci avrebbe attaccato! E stringeva, stringeva. Gli ho detto: Siete voi che avete attaccato Raed. L’avete attaccato tutta la vita”.
E dire, dice amaro, che tutto è iniziato con gli accordi di Oslo, con i due stati. Con la pace. “Prima vivevamo tutti insieme, arabi ed ebrei. Ora tra noi c’è un Muro”.
Ora, fuori dalla sua casa, c’è la foto di Shahid Raed. E duecento metri più avanti, alla prima curva, la foto di Shahid Fadi, che ha accoltellato un soldato per vendicare Raed.