il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2016
Il Male assoluto tira che è una bellezza. Hitler insegna
Due libri freschi di stampa, protagonista Adolf Hitler, ci dicono che il Male assoluto tira che è una bellezza e che gli archivi sul nazismo sono fonte d’ispirazione inesauribile e sempre più spettacolare. Il Führer come intrattenimento? Disgustoso, ma dobbiamo farcene una ragione. Prendiamo “Gli invisibili” di Mirella Serri (Longanesi): “La storia segreta dei prigionieri illustri di Hitler in Italia”. Registi e sceneggiatori dovrebbero essere attratti da storie vere, verissime, che sembrano una straordinaria fiction creata su misura per il cinema e la televisione. Prima scena: in un’alba livida del 28 aprile 1945 alcuni pullman carichi di prigionieri si fermano nel paesino di Villabassa, in Sudtirolo. Scortati dalle SS scendono 139 detenuti. Sembrano venire dall’oltretomba e trascinano fagotti e valigie legate con lo spago.
Non sono spettri ma alcuni dei più noti protagonisti della recente storia europea. Declinano i loro nomi. L’ex cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg; l’ex primo ministro socialista francese Léon Blum; il famoso industriale Fritz Thyssen… E poi gli italiani Mario Badoglio, figlio del generale Pietro; il generale Sante Garibaldi, nipote dell’eroe dei due mondi, più alcuni loschi personaggi di cui diremo fra poco. Sono i “prigionieri d’onore” di Hitler, detenuti segretamente in vari lager del Reich e che il malvagio Himmler, ministro dell’Interno e capo delle SS in previsione della sconfitta vorrebbe utilizzare nella trattativa di pace con gli Alleati. Un piano diabolico e geniale, pianificato fin dall’inizio della guerra, come se il Male avesse voluto stipulare una polizza sulla propria sconfitta, accumulando come moneta sonante i “prigionieri delle tenebre”.
“Mi trovavo nelle mani dei nazisti”, scriverà Blum in un quadernetto”, perché per loro ero ben più che un politico francese, infatti ero un socialdemocratico e un ebreo. Gli stessi requisiti che facevano di me un ostaggio spregevole, facevano di me un valore di scambio non soltanto nei confronti dello Stato francese e dei suoi alleati ma anche per il socialismo e la democrazia internazionale”. C’è una meditata preveggenza nei carnefici che smentisce l’idea del nazismo come pura ed esclusiva forza bruta che si esprime a latrati. Sono intelligenze luciferine quelle che hanno organizzato lo Sterminio nella nazione di Goethe e Beethoven, a dimostrazione che a generare mostri spesso non è il sonno della ragione.
Ma tornando al nostro film, la sceneggiatura propone situazioni incredibili ma autentiche: detenuti ebrei e antifascisti che si trovano a dover convivere spazi e ristrettezze con altri prigionieri che sono stati “carnefici” di Hitler o di Mussolini. Come il capo della polizia di Salò Tamburini, poi caduto in disgrazia. Una specie di generale Della Rovere senza riscatto, Tamburini – fisico corpulento da lottatore mongolo – destituito per ruberie e illeciti valutari, passa il tempo a Dachau in abito color prugna e sciarpetta al collo, giocando a scopone con il degno compare e braccio destro Apollonio e due soldati rimasti fedeli alla monarchia come il generale Garibaldi e il tenente colonnello Ferrero. Scrive Mirella Serri che “la vicenda dei prigionieri d’onore incarna anche la storia dei lager, della loro gestione, e dell’ignominia e della ferocia, dell’estrema codardia e della corruzione dei loro comandanti”. Ma è anche l’avventura, come non l’abbiamo mai letta, di ladri e gentiluomini, millantatori, teste coronate, spie, delatori e malavitosi.
“Hitler parlava molto e ci teneva a non essere equivocato. Aveva deciso di far stenografare ogni sua parola, in occasioni pubbliche e private. Migliaia e migliaia di pagine che venivano poi trascritte in varie copie e custodite in diversi archivi”. Da questi documenti conservati negli archivi ex sovietici, Fabrizio Dragosei, che scrive da Mosca per il “Corriere della Sera” ha ricavato: “Così parlò Hitler” (Mursia), un altro libro cinematografico che ci fornisce del dittatore un’immagine originale (rispetto al repertorio che siamo abituati a vedere) e ricca di spunti inediti.
Il progetto di Reich mondiale, gli altoatesini in Crimea e gli svizzeri a gestire gli alberghi. L’Est europeo trasformato in un’immensa colonia con città germaniche fortificate in mezzo a campagne abitate da milioni di schiavi. E poi la passione per le automobili, la conoscenza dei dettagli tecnici di aerei e carri armati, i commenti su nemici e alleati. Ma è l’Hitler più privato che esce fuori grottesco con osservazioni anche comiche. Per esempio, dava poca importanza alla cucina e odiava i banchetti. Sentite questa: “Sono un affare inventato dalla mafia dei cuochi. Questi re delle padelle sono tutti degli idioti ridicoli che ammaliano la gente e intossicano se stessi con una massa di frasi senza senso e nomi oscuri che nessuno comprende. Dov’è finito il vecchio pasto fatto di un piatto solo?”.
Diceva di leggere almeno un libro per notte vista anche la sua cronica insonnia. Nelle sue case e nei quartier generali disponeva di migliaia di volumi, spesso accuratamente annotati a matita. Era un amante di Shakespeare, che considerava superiore a Goethe e Schiller. E citava soddisfatto Don Chisciotte e Robinson Crusoe, “a parte la Bibbia i due libri più letti al mondo”. Faceva osservazioni bizzarre sui dirigibili: “La formula dello Zeppelin è un mero non senso. È infatti evidente che la natura non ha dato valore alla formula del più leggero dell’aria. La natura non ha dotato di vescica alcun uccello come invece ha fatto con i pesci”. Distillava idiozie con il sussiego dell’ingegno multiforme. Sosteneva che “l’ebreo manca totalmente d’interesse per le cose spirituali. Se da noi ha finto di dedicarsi alle lettere o alle arti, lo ha fatto unicamente per snobismo o per gusto di speculazione. Non ha né il senso dell’arte, né sensibilità”. Un programma tragicomico dal titolo: “Conversando con Adolf”, non sarebbe strepitoso?