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 2016  gennaio 17 Domenica calendario

Giulia Lazzarini si racconta

Ho davanti una donna che ha fatto del teatro la sua ragione di vita. Piccola, aggraziata, con una dolce ferocia che le aleggia sul volto, mi riceve nella sua casa milanese. Fuori, nella grande piazza, lo spazio sembra guidato da un imponente grattacielo e dal vuoto. Strano contrasto: come un enorme dente cresciuto a dismisura in una grande bocca. «In questa enorme e sperduta piazza, dove viene a morire via Monti, Milano appare senza orizzonte», dice Giulia Lazzarini. Mentre tutto intorno, nello studio che ci accoglie, le tracce visibili della sua vita: i manifesti, le locandine, i libri. Pezzi di una storia teatrale che va avanti da sessant’anni: Il giardino dei ciliegi di Cechov: «Ne feci vari allestimenti», Giorni felici di Beckett: «Un’opera profonda sull’ottusità dell’ottimismo»; La tempesta di Shakespeare: «Meravigliosa l’edizione che fece il grande Eduardo in napoletano arcaico»; Vita di Galileo di Brecht: «Fu uno dei tanti miracoli di Strehler»; Mia madre, il film di Moretti: «Fu una sorpresa, in tutti i sensi».
Cosa le manca di quel mondo?
«Nulla, o forse mi mancano le persone che non ci sono più. Noi attori siamo strumenti della parola e dell’invenzione. Siamo la presenza costante di qualcosa che non vuole sparire. Ora, ad esempio, sto lavorando alle lettere di Rita Levi Montalcini. Sarà uno spettacolo, una lettura. Guidata da Valeria Patera. Non è facile entrare nel personaggio di una donna osteggiata dalle leggi razziali, in esilio in America, che racconta la vita da esule ai familiari e le sue scoperte scientifiche».
Ha conosciuto la Montalcini?
«No, ma lei dice una frase alla fine di queste lettere che me la fanno sentire vicina, come una sorella maggiore: “La vita è un esperimento non finito e credo che oggi abbiamo bisogno di pensare in modo diverso se vogliamo che l’umanità si salvi”».
La sua vita che esperimento è stato?
«Si nasce immaginando di realizzare in prospettiva tante cose. Ma solo una è quella che ti guiderà. Per me è stato il teatro. Provengo da una normalissima famiglia. Mio padre era occupato in un’azienda di sanitari. Suonava a orecchio pianoforte e fisarmonica. Vivemmo i primi anni a Milano. Poi la guerra. Sfollammo a Riccione. Anni strani e brevi. Un’infanzia felice, malgrado tutto. La Romagna era terra fascista. Il Duce passava parte dell’estate a Riccione. Le colonie marine rinviavano alla mestizia di certi luoghi infantili. Ricordo la città d’inverno. Vuota. Gli hotel trasformati in ospedali per i soldati tedeschi. Ondeggiavano i biondi capelli come spighe di grano nel campo. E l’estate: i convalescenti seminudi e sdraiati tra le dune a prendere il sole. Tutto sembrava immobile mentre l’Italia affondava».
Quanto restaste?
«Tornammo a Milano l’8 settembre del 1943. Convinti che tutto fosse finito e che avremmo ricominciato a vivere. Fu invece il periodo più duro. Culminò nel bombardamento di Gorla, un quartiere milanese. Avvertivo lo strazio di quel 20 ottobre del 1944. Per errore bombardieri americani che avevano come obiettivo le fabbriche Breda di Sesto San Giovanni sbagliarono bersaglio. Riversarono su di una scuola i loro messaggi di morte. Perirono quasi 200 bambini. Mi è rimasta dentro quella tragedia».
Ne ha fatto uno spettacolo, mi pare.
«Sì, un modo per riflettere sull’orrore e sulla casualità con cui a volte la morte ti ghermisce».
È come se lei parlasse sempre attraverso gli occhi del teatro.
«Capisco che può sembrare un po’ morboso. Ma lì si è condensata la mia vita».
Come è iniziata questa passione?
«Nel 1951 ci fu un concorso per il Centro sperimentale di Roma. Lo vinsi e per due anni feci scuola di recitazione. Al mio corso c’erano Carlo Giuffrè e Domenico Modugno».
Modugno?
«Sì, il cantante o meglio quello che sarebbe diventato il Mimmo nazionale. Bravo, estroverso, recitava con una punta da guascone».
Com’era Roma?
«Più che una città aperta, era vuota. Non c’erano macchine. Poca gente. Al Centro sperimentale si arrivava col tram. Era di fronte agli stabilimenti di Cinecittà. Ogni tanto Blasetti e Rossellini tenevano lezioni di regia. Ma il cinema non ci voleva. Il cinema – come avevano indicato Rossellini e lo stesso De Sica – gli attori preferiva prenderli dalla strada. Finita quell’esperienza tornai a Milano».
Cosa immaginava per sé?
«Pensai che due anni di corso non potevano essere trascorsi invano. Preparai un book di foto e seppi che la televisione – allora in fase sperimentale – cercava volti nuovi. Fui chiamata per un colloquio. Ma quando mi videro restarono sorpresi».
Perché?
«Ero leggermente diversa da come Luxardo mi aveva immortalato: una specie di femme fatale in costume da bagno e sguardo seducente. Torni l’anno prossimo, mi dissero delusi».
E lei tornò?
«Alla fine venni scelta. Del resto la televisione – fino a quando non arriverà Mike Bongiorno con Lascia o raddoppia – faticava ad avere gli attori del momento. I quali non credevano al mezzo. Oltretutto, nei primi tre anni di vita, poco o nulla fu trasmesso. Anch’io cominciai a guardarmi intorno. Luchino Visconti cercava una giovane attrice per un ruolo ne La rosa tatuata».
Fece il provino?
«Incontrai Visconti nella sua casa sulla Salaria. Fui accolta dal maggiordomo. Attesi per un po’. E alla fine recitai qualche verso. Mi guardava in tralice, il maestro. Le braccia conserte una mano sotto il mento. Al contempo avevo fatto un provino per Strehler. Pensavo meglio due occasioni che una. Visconti mi prese. Ma anche Strehler mi volle».
Chi scelse?
«Visconti era giunto prima. Lo dissi, in una telefonata tempestosa, a Paolo Grassi. Lei non può fare così, lei ha tradito la nostra fiducia, sbottò iroso. Alla fine, come quando si muore per la troppa abbondanza, Visconti non realizzò La rosa tatuata e mi persi anche Strehler».
Perché Visconti rinunciò?
«Non fu lui a recedere, ci furono ritardi e incalzavano nuovi impegni. Cominciò a girare Rocco e i suoi fratelli. Ad ogni modo lavorai in parti secondarie con la compagnia di Laura Adani. Che tra l’altro aveva sposato il fratello di Luchino: il duca Luigi Visconti».
Come erano le attrici di allora?
«La Adani era una bella donna, adatta ai ruoli brillanti. Non aveva la profondità della Sarah Ferrati o di Lilla Brignone, ma era spumeggiante. Mi scritturò. In compagnia c’erano Alberto Lionello e Lina Volonghi. Facevamo un teatro leggero, easy. Ma intelligente».
Ha più avuto modo di lavorare con Visconti?
«No, quell’unica occasione la mancai. Però fu Strehler a richiamarmi per l’Arlecchino nel 1954. Da allora ho condiviso tante avventure col “Piccolo”».
Come fu lavorare con Strehler?
«Sapeva guardarti dentro, leggere cose che neppure sospettavi di avere. Sul finire degli anni Ottanta allestì la regia di Faust. Interpretai il ruolo di Margherita. E Giorgio mi spinse a fare cose che non pensavo di avere. Quell’aggressività o forza che credevo di non possedere uscirono naturalmente. Mi sorpresi. Convinta della mia innata fragilità scoprii qualcosa di nuovo. Era come se avessi ripensato interamente la mia esistenza».
L’altra figura del “Piccolo” era Paolo Grassi.
«Con Strehler aveva fatto di quel luogo la scena più prestigiosa d’Europa. Certo, dietro c’erano la lezione e il fascino di Bertolt Brecht che loro conobbero bene nella Milano della fine degli anni quaranta. Ma c’erano anche la creatività di Strehler e la tenacia di Grassi. Capitava che litigassero. Paolo era facile alla scenata. Aveva un’aria cardinalizia, ma dentro il fuoco dell’ira. Strehler, solo apparentemente più misurato».
Ricorda qualche episodio?
«Non vi assistetti personalmente ma Nina Vinchi la segretaria e poi moglie di Grassi – vera colonna del Piccolo – raccontò di uno scontro furioso, in cui Strehler minacciò Grassi: “Compro una pistola e ti ammazzo!” E Paolo guardando la Vinchi preoccupata, disse: tranquilla, tanto non ha una lira. È la vita del teatro: amori e tradimenti, liti e riconciliazioni».
Un altro regista con cui ha lavorato è Ronconi.
«Non ho fatto tanto con Luca. Il ventaglio fu un’esperienza spossante. C’era in lui un eccesso di intelligenza. Spaccava il capello in quattro. Strehler era più passionale. Ronconi più analitico. Aveva una freddezza comunicativa».
Si dice che Strehler fosse molto egocentrico.
«In misura vertiginosa. Ma quando occorreva sapeva essere molto umile. Lo ricordo negli ultimi tempi. Si era ammorbidito. Aveva la testa piena di problemi. Milano gli aveva voltato le spalle, e questo lo faceva enormemente soffrire».
A cosa si riferisce?
«Erano gli anni dell’amministrazione leghista dettati dall’arroganza, dall’incomprensione e soprattutto da una ignoranza spaventosa. Credo ne soffrì enormemente fino a dare le dimissioni dal suo Teatro che aveva diretto per cinquant’anni».
Perché dice che Milano gli voltò le spalle?
«Perché la città era diventata un concentrato della moda e dei soldi. La cultura nel senso più classico non aveva più spazio. Non si parlava allora della “Milano da bere”? Ecco, la città aveva sì voltato pagina, ma, se è possibile, in peggio».
Cosa fece lei in quegli anni?
«Noi attori siamo gente libera. Professionisti allo sbaraglio o al miglior offerente. Ripresi le mie collaborazioni con la televisione e con il cinema».
Proprio il cinema le ha dato un successo inaspettato.
«Si riferisca al film di Nanni Moretti:
Mia madre?»
Sì, come è nata la collaborazione?
«Ci fu una telefonata molto gentile nella quale Moretti mi chiese se volevo incontrarlo. Mi sentii lusingata e andai a trovarlo a Roma. Mi disse che aveva in mente di girare un film, parlammo del suo cinema. E poi mi accompagnò in albergo con la macchina. Lungo il percorso mi raccontò che il film voleva essere sulla madre. Mi chiese se me la sentivo di interpretarne il ruolo. Dissi di sì. E nei giorni successivi feci dei provini».
Poi che accadde?
«Niente, tornai a Milano. E per circa un anno non seppi più nulla. Era chiaro che il film per qualche ragione era stato rimandato».
Rischiava di fare la stessa fine che fece con Visconti.
«L’ho pensato. Ma mi sentivo soprattutto in imbarazzo. Sapevo che altre attrici erano candidate a interpretare quel ruolo. Finalmente giunse la telefonata in cui mi annunciavano di presentarmi sul set. E posso dire che è stata una bellissima avventura».
Cosa pensò del fatto che Moretti avesse scelto un tema così intimo?
«Dal copione non compresi bene ciò che tormentava Nanni. Sentivo attraverso il ruolo il dolore, o meglio il dispiacere, di quest’uomo di non essere stato vicino quanto avrebbe voluto a quella donna. Naturalmente non mi ha mai detto nulla. Il groviglio di sentimenti che provavo faceva sì che la sera tornassi esausta in albergo».
Che idea si era fatta di questa donna?
«So che si chiamava Agata e che era una persona allegra, disponibile, intellettualmente curiosa. Un’insegnante molto amata. Mi colpì che Nanni avesse ricostruito come una fotocopia lo studio, con i libri, di questa donna. E quando in una delle scene finali tutti i libri vengono imballati negli scatoloni, senza sapere che fine avrebbero fatto, ho pensato che quello era il vero funerale. La vera perdita: la fine della cultura».
Cosa legge di solito?
«Quello che capita. Sono lenta nella lettura. Ho la tendenza a visualizzare le parole, le ambiento, è più forte di me. E questo richiede tempo. Ho riletto in questi giorni Il giovane Holden. Che personaggio magnifico. E poi ho pensato: sì magnifico ma creato da un uomo tristissimo; afflitto da una vita priva di amicizia: difficile, faticosa, piena di divieti e di sospetti».
Pensandolo cosa ha concluso?
«Ho pensato che l’artista può creare in molti modi. Anche senza alcun contatto con l’umanità. Ma allora è un infelice. Meglio essere meno artisti, non trova?» Non credo che si vivano momenti particolarmente felici.
«È vero e mi creda: non riesco nemmeno più a fare gli auguri. E poi auguri di cosa? Non mi piace il mondo in cui vivo, anche se so di essere privilegiata rispetto a una miriade di nuovi disgraziati. A volte mi affaccio su questa grande piazza e vedo quel grattacielo sullo sfondo che pare una nave in partenza. Ma è sempre lì. Immobile e minaccioso. Mi consolo nei giorni di nebbia. Quando tutto scompare come per magia. E la città sembra di nuovo pulita, onesta, vivibile».