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 2016  gennaio 17 Domenica calendario

La deflazione punisce il debito. I mercati non sbagliano ad avere paura

La perdita registrata da Wall Street nel 2016 costituisce il peggior inizio anno di sempre. Per altre Borse è andata anche peggio. Pure le obbligazioni corporate hanno subito perdite generalizzate. A detta di molti, la caduta dei mercati è legata al petrolio: il contratto future (Wti) ha chiuso per la prima volta sotto i 30 dollari (-70% in 18 mesi). Questo viene letto come un indicatore del rallentamento cinese, con lo spettro di una svalutazione dello yuan, e dell’aumento delle tensioni politiche ed economiche in Medio Oriente.
Un’interpretazione che non convince. Il greggio è in caduta da mesi e il rallentamento cinese non è una novità; lo yuan poi, verrà gradualmente sganciato dal dollaro ed è stabile rispetto al paniere delle principali monete. La caduta dei mercati non è cominciata col 2016, ma in dicembre, in concomitanza con la decisione della Bce di non avviare una nuova fase di Quantitative easing (Qe), e la fine dell’era del denaro a costo zero, con l’aumento dei tassi della Fed.
Secondo la Bce si vedono i primi segnali di ripresa nell’eurozona, specie nella fiducia dei consumatori. Le economie dell’area euro dipenderebbero in misura limitata dalla domanda cinese perché gran parte del commercio è intra comunitario (e con gli Usa), e non esportano materie prime. Non ci sarebbe rischio deflazione perché la dinamica dei prezzi al consumo è artificialmente frenata da una caduta del greggio, transitoria in quanto dovuta a un eccesso di offerta destinata a contrarsi. Più Qe oggi non sarebbe giustificato perché si sommerebbe all’effetto espansivo che la Bce si attende dalla caduta del prezzo delle fonti energetiche e delle altre materie prime, come avvenuto in passato.
Analoga l’analisi della Fed: il rialzo dei tassi a dicembre, primo di una serie annunciata, conferma che ormai ritiene la ripresa consolidata. Gli Usa, anche più dell’eurozona, sarebbero isolati economicamente dal resto del mondo e i suoi consumatori traggono grandi benefici dal crollo del petrolio. Quanto al rischio deflazione, anche la Fed lo ritiene una distorsione dovuta al basso prezzo del greggio, destinato a risalire prossimamente verso i 50, 60 dollari.
Ma il crollo dei mercati vuol dire che molti ritengono errata l’analisi delle banche centrali, e reale il rischio di rallentamento e deflazione. La caduta del greggio segnalerebbe una caduta della domanda, non un eccesso di offerta, dimostrata dal crollo del commercio internazionale a minimi storici. Quanto all’isolamento delle economie occidentali, la domanda di beni di consumo e servizi (cellulari, auto, abiti, viaggi e tempo libero, eccetera) dipendente sempre più dai nuovi consumatori nei Paesi emergenti, spesso prodotti in loco da multinazionali: la quantità fisica di esportazioni non è più un indicatore accurato dell’impatto della domanda mondiale sugli utili delle aziende occidentali (e dei loro fornitori), che rimangono cauti a investire perché, evidentemente, non credono in una forte ripresa dietro l’angolo. Gli investimenti netti delle aziende Usa, escluso il settore energetico, sono stati appena l’1,5% della loro capacità produttiva. In Europa e Giappone è anche peggio. La crescita del fatturato di oltre la metà delle società quotate americane nel 2015 è stato inferiore al 2%. I tassi decennali tedeschi (0,5%) dimostrano che il mercato dubita che la Bce raggiunga l’obiettivo del 2% di inflazione nei prossimi anni; e quelli americani al 2%, che non si crede nel rischio inflazione.
Ma se non crescono prezzi e domanda, i ricavi delle imprese non possono crescere. L’aumento degli utili degli ultimi anni è derivato in gran parte dal taglio dei costi e dall’aumento della leva: non per investire, ma per riacquistare titoli propri o fare fusioni e acquisizioni. Così il debito delle aziende è in forte crescita sia in Europa che negli Usa, dove è ai massimi storici. Ma per il debito, uno scenario di deflazione e bassa crescita è allarme rosso: i maggiori ricavi sono infatti l’unico modo per poterlo ripagare con certezza. Di qui l’aumento del rischio di credito e la caduta dei corporate bond.
Non penso che, per ora, ci siano seri rischi di stagnazione o deflazione nel 2016, ma ritengo la paura dei mercati motivata, ancorché eccessiva. Tuttavia è difficile pensare che la fase critica delle Borse possa finire senza segnali concreti di crescita della domanda e degli utili aziendali; oppure senza che Fed e Bce decidano un’inversione di marcia. Ipotesi purtroppo remote nell’immediato futuro.