Corriere della Sera, 17 gennaio 2016
I racconti della Berberova
È una sera dei primissimi giorni di giugno del 1940. Dopo lo sfondamento di Sedan, l’esercito francese si sta ritirando; i tedeschi avanzano verso Parigi. Nel bel giardino di una casa d’un villaggio distante un centinaio di chilometri da Parigi, sono riunite, fra uomini e donne, una decina di persone. Alcune di queste persone sono francesi; altre – come i padroni di casa: Marija Leonidovna e suo marito Vasilij Georgievic, più anziano di parecchi anni – appartengono al mondo ben radicato in Francia della emigrazione russa fuggita dalla rivoluzione. La cena è appena finita. Sulla tavola rimangono i bicchieri del vino. Nel cielo, che ha l’inimitabile colore verde-azzurro degli estenuati crepuscoli estivi del Nord, cominciano ad accendersi le prime stelle. Ma i vecchi alberi – le acacie, i tigli – sono immobili, non respirano: come se la loro quiete, che è anche la quiete della sera, nascondesse un presagio invisibile, e opprimente.
Siamo all’inizio del folgorante racconto lungo di Nina Berberova, La resurrezione di Mozart (Guanda) che dà il titolo a una raccolta nella quale sono compresi altri due racconti più brevi e altrettanto belli. Fino a questo momento i commensali hanno parlato della guerra. Ora, mentre sui volti sgomenti a poco a poco calano le ombre, un desiderio segreto di ribellione ai pensieri tristi e di libertà dal precipizio imminente, accende timidamente le parole: e le indirizza verso prospettive inaudite, fuori del tempo. Se i grandi personaggi del passato, quali Napoleone, o Bismarck, o la Regina Vittoria o magari Giulio Cesare – ha suggerito qualcuno – potessero tornare in vita, cosa direbbero di quello che sta accadendo? Che magnifico argomento! Ma perché proprio loro, protesta una signora venuta da Parigi, con grandi denti bianchi: io, anche se è banale, resusciterei Puskin. Certo, si accoda Marija Leonidovna, una persona così cara, allegra e straordinaria. «Che gioia sarebbe vederlo vivo». E se fosse la Taglioni? prosegue la signora coi grandi denti bianchi. Ma il marito si oppone. La Taglioni? Una ballerina? Se c’è da resuscitare qualcuno, quello semmai è Tolstoj: non era lei gentilissimo signore – gli direi – che aveva sostenuto che non ci sarebbero state più guerre? È buio, oramai. E i pensieri vagano lontano. Talmente lontano, che ognuno li tiene per sé. Poi, un colpo di cannone risuona e si spegne a oriente; la comitiva si scioglie; chi torna a Parigi con l’automobile, chi in bicicletta in un castello vicino; e la padrona di casa, Marija Leonidovna, una donna non bella ma ancora femminile, rimane sola.
Lei, mentre i pensieri di tutti si disperdevano chissà dove, ha avuto una improvvisa illuminazione e una certezza che le hanno allargato il cuore. Mozart, vorrei – ha saputo dal suo cuore. Lui e basta. Non passa una settimana. Su Parigi cadono le bombe. La gente scappa. Gli sfollati e i soldati in rotta, sanguinanti, occupano le abitazioni. È un vero e proprio esodo di carri, carretti, macchine con sopra i materassi per difendersi dalle bombe, vecchi e bambini a piedi quello che si vede sfilare nelle strade dei villaggi e in quelle provinciali che solcano i campi di grano. E Marija Leonidovna è incapace di pensare ad altro. Certo, è vero – si ripete ossessivamente affidandosi alla tenerezza – lui sarebbe molto più giovane di me e io ho già un marito, ma perché non potrei amarlo? Per quale motivo «l’orrore, la crudeltà, il dolore si materializzano così facilmente, prendendo forma in una immagine e opprimendo l’anima, mentre il sublime, la tenerezza, l’imprevisto e il fascino attraversano come un’ombra il cuore e la mente senza che sia possibile afferrarne, osservarne o percepirne peso e forma»?
Una sera è alla finestra accanto alla porta di ingresso, quando in fondo al viale, dalla semioscurità, vede spuntare la figura di un uomo. L’uomo avanza lentamente, dischiude delicatamente la porta, entra in casa. È pallido e magro, ha i capelli scompigliati, il naso sporgente; nessuno degli indumenti che indossa – dagli stivali sulle gambe nude al cappello – è della sua misura. Non deve avere più di trent’anni. Marija, senza riuscire a controllare la sua trepidazione, gli domanda da dove viene. Lui abbassa gli occhi e, con uno strano accento, da straniero, risponde che viene da molto lontano, ed è un musicista. Quindi si distende sul letto che lei gli indica e, così com’è, vestito, piomba nel sonno.
Passano altri giorni. L’ospite che viene da molto lontano non chiede niente, non dice una parola. Esce dalla sua stanza la mattina, con quella giacca sformata, gli stivali sulle gambe nude e il cappello sui capelli scomposti, e va al villaggio a comprarsi da mangiare; ritorna; siede alla finestra poggiando la testa sul gomito e il gomito sul davanzale, come se nella testa avesse un peso insostenibile, oppure sulla soglia della casa; ogni tanto socchiude gli occhi. E Marija lo guarda, in silenzio. Lo guarda, senza osare avvicinarsi a questa creatura che non ha nulla, nessuno, soltanto la musica e nient’altro. Immagina che è stato così fin dall’infanzia. Pensa che allora non è valsa la pena – per lui – di venire a questo mondo, per rimanere inascoltato e sconosciuto, più povero di un uccello, più debole di un’ombra. E lo ama, perdutamente: come si può amare soltanto negli amori impossibili, che non si avvereranno.
È così, infatti. La situazione precipita. La guerra incombe. Tutti scappano. La casa, per una notte, si riempie di fuggiaschi che ha portato il marito da Parigi: persone importanti per il suo lavoro che il giorno dopo abbandoneranno il villaggio, ma per una notte devono dormire. Marija entra nella stanza del musicista e, con molta dolcezza, gli comunica che per una notte dovrà cedere il suo letto. Lui si alza immediatamente dal letto, ringrazia dell’ospitalità e si avvia lungo il viale. Lei lo segue per un po’, senza mostrarsi. Poi, mentre nell’aria rimbombano i colpi dei cannoni, sempre più vicini, si scioglie in un pianto irrefrenabile. «Se ne va, se ne va», dice a bassa voce. Apre il cancello e ritorna a casa.