Corriere della Sera, 17 gennaio 2016
Le responsabilità del magistrato che doveva indagare su Lidia Macchi, i bastoni tra le ruote di Comunione e Liberazione
DAL NOSTRO INVIATO
VARESE Il passo zoppicante e con il bastone, a causa della poliomielite, lo sguardo intensissimo, la fama di vero «sbirro» lettore degli abissi umani e di mastino che fa confessare anche l’inconfessabile, un’ansia incontrollabile di conoscenza: racconta un cronista di giudiziaria in pensione della Prealpina, il giornale locale, che sei mesi prima dell’arrivo a Varese nel 1984, il magistrato si abbonò al quotidiano per conoscere la città e le firme, e che quando si presentò ai giornalisti rimarcò un errore a suo avviso enorme: «Uno di voi in un trafiletto ha scritto Abbate. Con una “b” in più».
Il pm Agostino Abate, campano innamorato di Maradona (memorabile il finale di uno strenuo interrogatorio con un tangentaro della Dc, a parlare del campione argentino), ha coordinato inchieste su mazzette tra i politici e criminalità organizzata. Centinaia di arresti. Però rischia di rimanere famoso più per l’indagine che non ha portato a termine: quella su Lidia Macchi. Il fascicolo è stato suo per un’eternità. Il tempo di una convinzione e forse di un’ossessione: che il vero responsabile, o almeno la figura chiave, fosse don Antonio Costabile.
Lo scorso fine anno, con un provvedimento del Csm dalle durissime motivazioni, Abate è stato trasferito a Como in conseguenza diretta del caso Macchi per le «negligenze» e le «gravi violazioni», per «aver omesso atti che gli incombevano» e per «aver arrecato indebito vantaggio all’ignoto autore del reato». Il magistrato, cercato dal Corriere, dice che non può rilasciare dichiarazioni ufficiali. Però si permette di osservare, questo sì, un fatto, lasciando fermentare eventuali interpretazioni e suggestioni: ovvero che per Lidia, insieme a Binda c’è ancora un altro indagato, l’ergastolano Giuseppe Piccolomo, per il quale, va detto, a breve dovrebbe esser chiesta l’archiviazione ma che comunque, al momento, «avrebbe ucciso una persona uccisa da un differente soggetto». Cioè Binda.
Amato o detestato, Abate. Secondo alcuni, esterni a Comunione e liberazione e convinti che le vere responsabilità siano dei suoi superiori abili e lesti nello «scaricarlo», sarebbe stato vittima della pressione del movimento, compresi gli sforzi per salvare don Antonio, uno dei primi sul luogo del delitto nel 1987, indagato per ventisette anni e poi scagionato. Secondo Cl, invece, Abate si sarebbe intestardito con il suo teorema, evitando di guardare il resto. Ma è da sempre che il caso Macchi ha misteri e incidenti di percorso. Mai trovata l’arma, un coltello; non verificato l’alibi della cerchia ristretta di Lidia, a cominciare da Binda (catturato su richiesta del sostituto procuratore generale Carmen Manfredda) che raccontò d’esser stato via, in quei giorni, in una vacanza alla quale non avrebbe partecipato; e ancora c’è, ed è una decisione giudicata incomprensibile dall’avvocato Daniele Pizzi, legale dei Macchi, l’ordine nel Duemila del gip Ottavio D’Agostino di distruggere i vetrini con lo sperma presumibilmente dell’assassino e i vestiti della ragazza. Ricorda il legale che il giudice gli motivò l’azione con la necessità di svuotare l’ufficio reperti, pieno di materiale. Ma è forse sulla lettera che bisognava lavorare meglio. I genitori di Lidia, dopo aver ricevuto la missiva anonima il giorno dei funerali, s’erano precipitati a consegnarla agli investigatori, i quali avrebbero potuto isolare le tracce di Dna grazie alla saliva usata per incollare la busta. Ma la lettera fu scarsamente considerata se non «dimenticata» in un cassetto. E anche quando per stagioni e stagioni nulla più si mosse, nonostante le disperate, quotidiane visite in Procura di papà Giorgio, vi furono altri reperti che, sostengono i familiari di Lidia, rimasero depositati nella cassaforte di Abate. Il quale però, insistono gli ammiratori (come alcuni poliziotti) è stato lasciato «solo» fin dall’inizio: quando si trovò ad interrogare i ragazzi di Comunione e liberazione che si presentavano accompagnati da avvocati di «peso». Dal carcere, Binda giura che la lettera anonima non è la sua; eppure nel 1987, proprio in quanto «dimenticata», nessuno pensò a una perizia grafologica.