Corriere della Sera - La Lettura, 17 gennaio 2016
Da Josephine Baker in poi
La notte del 2 ottobre 1925, una giovane donna nera, nata a St.Louis, Missouri, salì per la prima volta sul palco del Théâtre des Champs-Élysées. Danzò come nessuno aveva mai danzato a Parigi: un’eruzione cinetica, fu detto. Nacque una leggenda che ancora oggi confonde. Era Joséphine Baker. Negli anni successivi, mise il suo marchio sulla Francia e sull’Europa. Le Corbusier scrisse un balletto per lei; Adolf Loos le disegnò una casa, con una piscina al centro e attorno finestre dalle quali guardarla fare il bagno; Henri Matisse appese in camera da letto una sua figura ritagliata a grandezza naturale; si fecero pubblicità; Jean Cocteau disegnò abiti e costumi di scena per lei; artiste e artisti dipinsero la sua silhouette. Un anno dopo, ballò alle Folies Bergère nella famosa sottana di banane.
Tre anni prima, F. Scott Fitzgerald aveva dichiarato che il mondo era entrato nell’Età del Jazz. L’Europa del dopo Grande guerra aveva scoperto e subito abbracciato la musica che arrivava da Oltreoceano, soprattutto l’idea e la sensazione di un’epoca di liberazione e di pazzia. La liberazione, dalla guerra o dalle tirannie imperiali, come l’emancipazione dei neri d’America, non era però una linea retta, o una cena di gala come si sarebbe detto dopo. Fu un tornante che sale verso un’aria più fine ma anche, appunto, torna indietro. Il jazz è forse il racconto più vero del Novecento di questa marcia contraddittoria. E Joséphine Baker ne è la prima diva ad averne spudoratamente messo in scena l’ambiguità: jazz al di là della musica. Vederla ballare seminuda con un casco di banane di stoffa allacciato alla vita sconvolgeva il pubblico, sviluppava le fantasie sulla femminilità nera, esaltava la ricerca del primitivismo di quegli anni, raccontava di colonialismo e di razzismo ma anche eccitava l’idea moderna della meccanizzazione, apriva nuovi prati al femminismo. Il Tumulto nero, come titolò un portfolio a lei dedicato da Paul Colin, sbalordì e fece vacillare decine di intellettuali. Il jazz conquistava il mondo attraverso un’espansione, scrisse Eric Hobsbawm, «praticamente senza paralleli culturali per velocità e portata eccetto la prima espansione del maomettanismo».
Una mostra in corso fino al 6 marzo – I got Rhythm, Kunst und Jazz seit 1920, a Stoccarda – racconta i punti d’incontro, straordinariamente tanti, del jazz con l’arte figurativa, soprattutto in Germania ed Europa ma non solo. Ed è su quel sentiero tra due forme di espressione che si legge la portata politica e di emancipazione nata con l’Età del Jazz: non solo prima forma artistica originale dell’America e della sua ricerca della libertà ma anche scontro continuo tra apparenze e realtà difficili, come la signorina Baker aveva fatto capire. Louis Armstrong e Duke Ellington viaggiarono, simboli della libertà ideale americana e allo stesso tempo vittime del razzismo di casa, come decine di altri musicisti neri, esaltati come simboli della superiorità dell’Occidente anche durante la Guerra fredda ma considerati con sguardo obliquo per il colore della pelle. Una lotta, quella del jazz, rappresentata da decine di artisti che vedevano in quella musica radici simili a quelle della loro creatività.
Del jazz si innamorarono George Grosz, di cui la mostra di Stoccarda presenta Negerpaar in Harlem e il disegno di un sassofonista; Otto Dix di cui è esposto lo straordinario trittico Metropolis; e poi Andy Warhol che disegnerà le copertine degli album della Blue Note Records; e Willem de Kooning, Max Beckmann, František Kupka, Jackson Pollock, Piet Mondrian; poi lo sviluppo del jazz nel bebop e della pittura nell’Espressionismo astratto o nella copertina di Pollock per l’album Free Jazz di Ornette Coleman (1961); decine di artisti americani ed europei, per non dire del movimento Harlem Renaissance che dipingeva ai ritmi di Armstrong, Ellington, Dizzy Gillespie, Ella Fitzgerald, Jelly Roll Morton, Fats Waller.
È in questo incontro tra musica e arte visiva che meglio si legge la lotta continua sulla strada dell’emancipazione raccontata dal jazz. È Andy Warhol a fotografare le rivolte razziali. Ross Piper a raccontare su tela la Morte di Bessie Smith. Jean-Michel Basquiat a dipingere la repressione dei neri. Oppure, a rovescio, il gerarca nazista Hans Severus Ziegler che concepì il manifesto del 1939 per la Entartete Musik, la musica definita degenerata dal Terzo Reich: un nero con il sassofono, grandi labbra rosse e la stella di Davide. L’incontro del jazz con la pittura e le arti figurative mostra che la libertà e l’emancipazione sono conquiste mai definitive. Interessante che su questo crinale ci sia un ritorno in giorni in cui integrazione, libertà e conflitti culturali stanno raggiungendo livelli non vissuti da tempo.
Oltre alla mostra del Kunstmuseum, Stoccarda ospita lavori di Christian Marclay che indagano sul rapporto tra culture audio e video. Il Whitney Museum di New York ha ospitato la mostra, che chiude oggi 17 gennaio Archibald Motley: Jazz Age Modernist. Il Pera Museum di Istanbul ha in corso fino al 7 febbraio This is not a Love Song, scambi tra video art e musica pop. Alla Ica di Londra si è appena conclusa la piccola ma affascinante Radical Disco: Architecture and Nightlife in Italy, 1965-75, il Piper e simili. Il prossimo autunno il Victoria & Albert Museum di Londra terrà una grande mostra su musica e ribelli, You say you want a Revolution, dagli Who al Jimi Hendrix di Woodstock. Che non sono necessariamente jazz ma che di esso sono figli, artistici e politici.
È che in questa straordinaria storia di musica e di arte l’America e l’Europa sono diventate più belle, hanno imparato che niente è regalato, niente è mai per sempre. E la libertà, l’emancipazione, l’integrazione anche oggi, nell’Età dei Profughi, sono tutte da conquistare. Lo si capì già quella sera dell’autunno 1925, al Théâtre des Champs-Élysées, Età del Jazz.