Corriere della Sera - La Lettura, 17 gennaio 2016
Sulla versione cinematografica del “Piccolo Principe" di Saint-Exupéry
Viviamo tempi in cui appare difficile capire le dinamiche della politica e dell’economia, che pure intrecciano quotidianamente le nostre esistenze. In queste situazioni, il linguaggio scientifico e analitico arranca e segna il passo e il parlare per metafore della favola si rivela a volte più adeguato. Sono rimasto piacevolmente colpito dalla versione cinematografica realizzata da Mark Osborne de Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, un libro che rileggo periodicamente da molti anni. Il libro e il film sono ovviamente due prodotti diversi, ma trovo che quest’ultimo abbia saputo calare nella contemporaneità i profondi messaggi antropologici del testo, amplificandoli senza troppo mortificarli.
Il piccolo principe è prima di tutto un’incisiva critica all’utilitarismo che informa oggi le nostre vite, ben al di là dell’economia. Non a caso, settant’anni dopo la pubblicazione del libro, l’«uomo d’affari» a cui il piccolo principe diceva: «Io, se possiedo un fazzoletto di seta, posso metterlo intorno al collo e portarmelo via. Se possiedo un fiore, posso cogliere il mio fiore e portarlo con me. Ma tu non puoi cogliere le stelle!» – ha in realtà conquistato l’intero mondo. Le stelle, imprigionate, ora producono energia per il suo pianeta terra.
Elevata (nel film) a principio unico di quella che è ormai una non-società tutta centrata sull’individuo, la ricerca dell’interesse diventa hybris incontrollata, desiderio irrefrenabile di ricchezza, potere, devozione e riconoscimento. È come se si fosse realizzata una sintesi diabolica dei diversi personaggi incontrati dal piccolo principe nel suo pellegrinaggio etnografico tra i pianeti: il «re», per il quale «il mondo è molto semplice. Tutti gli uomini sono dei sudditi»; il «vanitoso» dal buffo cappello; lo stesso «uomo d’affari».
Utilitarismo e desideri sfrenati producono solitudine. Il piccolo principe è una favola poetica sulla solitudine: è solo il protagonista del libro nel suo pianeta; è straordinariamente sola la protagonista del film nel «progetto di vita» che le ha costruito attorno la madre; sono soli gli abitanti dei pianeti e degli asteroidi; solo l’aviatore nel deserto e nella sua bizzarra casa; sola la volpe, almeno fino all’incontro con il bambino dell’asteroide B 612; sola la rosa nella campana di vetro.
Da lettore antropologo, l’aspetto che mi ha sempre colpito di questa grandiosa metafora dei nostri tempi è che non soltanto è incisiva nella capacità di «svelarne» gli aspetti più profondi, ma al tempo stesso nell’indicare delle possibilità alternative. Si tratta in primo luogo di praticare l’ascolto, di disporsi a comprendere l’Altro anche quando appare bizzarro, buffo come l’uomo del lampione («Però è meno assurdo del re, del vanitoso, dell’uomo d’affari e dell’ubriacone. Almeno il suo lavoro ha un senso») e persino arrogante. Il relativismo culturale del piccolo principe è ben lontano dall’accettazione incondizionata di qualunque modello di umanità, ma è fondato sull’attitudine alla comprensione e al riconoscimento della dignità e del senso, quale pre-condizione per attuare un dialogo e agire sulla realtà per trasformarla. Soltanto sforzandosi di capire il pensiero degli altri (la bizzarra richiesta di una pecora per ripulire dai germogli di baobab un asteroide grande poco più di una casa...) si pongono le condizioni per creare legami. La fiducia nell’interdipendenza percorre la favola (nella scatola con i tre fori c’è la pecora).
Come si esce dalla non-società individualista, dalla «scuola dell’essenziale», metafora dell’utilitarismo che priva la vita di ogni colore e sfumatura poetica? In primo luogo rimettendo al centro i «legami». L’episodio della volpe è la chiave di volta della favola di Saint-Exupéry. «Che cosa cerchi?», chiede la volpe. «Cerco gli uomini, disse il piccolo principe». «Che cosa vuol dire addomesticare?», chiede quest’ultimo. «È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire “creare dei legami”... Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo». I legami sono quelli tra gli esseri viventi come gli uomini, gli animali, le piante certo, ma anche quelli con gli oggetti. La casa dell’aviatore (nel film) è un trionfo di oggetti d’affetto che rimandano a storie di vita e a incontri, è il caos della vita che si oppone al freddo raggelante delle case di solitudine tutte uguali in cui vivono gli abitanti della città.
Creatività, fantasia, visione prospettica sono gli altri ingredienti per uscire dalla non-società in cui siamo precipitati. Il piccolo principe è anche una favola tutta protesa verso la morte o meglio verso la mortalità. È in fondo il vivere-per-la-morte di cui hanno parlato molti filosofi, l’accettazione e consapevolezza del limite che scardina la hybris del possesso e del potere ed esalta le relazioni e la creatività. Le favole ci salveranno dal mostro che imprigiona le stelle? Alain Caillé, fondatore e animatore del movimento convivialista e antiutilitarista, ne è convinto e infatti ha affidato a un racconto (più volte rappresentato anche a teatro), ispirato al De trinitate di Sant’Agostino, la conclusione del suo ultimo libro Le convivialisme en dix questions (Le Bord de l’Eau, 2015). Una novella «utopica e convivialista» che racconta come gli uomini, dopo aver sfiorato l’annientamento ecologico e sociale, nel 2030 trovano un accordo per limitare, senza negarli, i desideri di ricchezza, potere, riconoscimento ideologico, religioso ed etnico. Abbandonato il sogno di una crescita illimitata e messi da parte i desideri sfrenati che creavano diseguaglianze, il mondo diviene un luogo di pace e benessere condiviso.
Utopie «da bambini»? Forse, eppure è curioso notare che il pensiero economico deve molto a un’altra favola che si colloca, per così dire, all’origine dell’utilitarismo moderno e delle sue (i)perversioni contemporanee: La favola delle api, scritta a più riprese da Bernard de Mandeville all’inizio del Settecento. In un alveare ricco e prospero, in cui crescevano parallelamente la ricchezza e l’ingiustizia sociale che produceva pochi ricchi e molti lavoratori affaticati; in un alveare in cui dominavano il vizio, il lusso, la corruzione e lo spreco, Giove – impietosito dalle richieste del popolo – decise di diffondere l’onestà e la giustizia. Avvenne così una profonda trasformazione: crollarono i prezzi delle merci, i furfanti furono smascherati, i politici corrotti vennero cacciati, tutti ora vivevano contenti di poche cose. E tuttavia l’alveare, attaccato dai nemici e indebolito dalla «decrescita», si contrasse rapidamente fino a divenire piccola cosa, una manciata di api che se ne andarono a vivere nel cavo di un albero.
La riscoperta dei legami sociali, la consapevolezza della finitudine, i piccoli prìncipi e i desideri contenuti del convivialismo ci precipiteranno nel cavo di un albero? Personalmente non ne sono affatto convinto. Riprendiamoci per intanto le rose, le volpi e le relazioni sociali.