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 2016  gennaio 17 Domenica calendario

Al Job Market degli economisti

I meeting
L’American Economic Association (Aea), fondata nel 1885 per incoraggiare la ricerca in campo economico, è presieduta attualmente da Robert J. Shiller. L’Aea organizza ogni anno, insieme ad altre 55 associazioni di studiosi che si occupano di discipline correlate, gli incontri dell’Allied Social Sciences Association (Assa). Si tratta di meeting che durano tre giorni, fitti di riunioni, convegni e seminari, nei quali economisti di tutto il mondo hanno la possibilità di presentare i loro lavori a circa 600 università e centri di ricerca di ogni Paese, in vista di possibili assunzioni. L’incontro di quest’anno si è tenuto dal 3 al 5 gennaio a San Francisco e i prossimi sono già stati programmati fino al 2020. Nel 2017 il meeting si svolgerà a Chicago dal 6 all’8 gennaio. Lo scorso anno si è tenuto a Boston dal 3 al 5 gennaio
È quasi ora di cena quando due ragazze si riparano dalla pioggia in uno Starbucks vicino a Union Square, a San Francisco. Una è di Roma, l’altra di Palermo. Poco lontano una galleria d’arte vende sei tele di Chagall, sette di Andy Warhol, quattro Dalì e dieci schizzi di Picasso, impedendoti di dimenticare per un solo istante che razza di persone vivano qui. All’altro angolo un senzatetto bianco, anglosassone e magari anche protestante chiede spiccioli in un bicchiere di carta fradicia quando ormai l’ora di punta è passata da un pezzo.
Su realtà del genere, il successo esplosivo dei distretti innovativi e le loro discrepanze, fra stasera e domani queste due ragazze si giocano tutto. Sono esauste e stranamente sovraeccitate. Si concentrano su certi dettagli che sembrano senza importanza. La siciliana, Rosalia Greco, 31 anni, nei suoi colloqui di lavoro sta presentando uno studio sulle disparità di reddito, ma ha già escluso una certa università americana che pareva interessata a lei: nella squadra degli intervistatori uno aveva i capelli sporchi e un altro, nota, «si puliva i denti con un’unghia mentre parlavo». La romana, Giulia Pavan, 28 anni, lavora su imprese e produttività e ha appena finito un colloquio con l’Istituto tecnologico autonomo del Messico. Si sentivano sotto esame anche gli intervistatori, lo ha percepito subito. «Mi hanno detto dieci volte che sono una top institution. Quello che mi ha intervistato ha un dottorato a Stanford in effetti – riflette —. Se mi invitano, ci vado».
Questo si chiama, letteralmente, il job market degli economisti. Il mercato del lavoro, da intendersi nello stesso senso in cui esiste quello della frutta in certe piazze, oppure delle opzioni sul rame o sul petrolio alla Borsa di Chicago. Sia detto senza ingiuria, perché non c’è ragione di non prendere tremendamente sul serio quello che accade in queste ore. È uno di quei momenti della vita di migliaia di persone, centinaia di italiani, in cui il tempo rallenta e prende una qualità speciale. Lo scambio fra obiettivi e disegni individuali tocca il suo punto di massima densità. Agli incontri dell’American Economic Association all’inizio di ogni anno circa seicento fra università, agenzie di studi, imprese di consulenza o banche – vengano dagli Stati Uniti, dall’America Latina, dall’Europa, dall’Asia o dal Medio Oriente – hanno ciascuna il proprio tavolo, ufficio o suite d’albergo, secondo il rango. E qualcosa come cinquemila candidati di decine di Paesi diversi si affacciano per tentare la sorte e trovare un posto di lavoro, ora che stanno finendo il dottorato dopo anni di studi. Girano un’infinità di tavoli. Arrivano qui con l’agenda piena, concentrati. Si presentano su appuntamento, e sono messi alla prova. Più duro è il colloquio, più intransigenti gli intervistatori nel cercare di aprire falle nei lavori che i candidati presentano, più diventa chiaro il messaggio: ci interessi. Vogliamo vedere di che pasta sei fatto. Le domande affilate e piene di spine servono a capire la stoffa dell’aspirante, ma sono anche un modo per i datori di lavoro di segnalare la propria qualità. L’intervista diventa una danza di parole dove il fine di entrambe le parti è m ostrare all’altra la propria attrattività intellettuale.

Come nei buoni pezzi teatrali, c’è unità di tempo e di luogo: tutta la domanda e tutta l’offerta globale di giovani economisti sono concentrate per 72 ore in due hotel attorno a Union Square a San Francisco (l’anno scorso era a Boston). Gli adolescenti lo troverebbero simile allo speed-dating in rete, una ricerca condensata nel tempo del partner più adatto. Agli adulti ricorderà il calciomercato. Ma gli economisti stessi lo definiscono quanto di più vicino esista a un mercato perfetto, quasi senza attriti. Si compete da entrambe le parti, venditori e compratori di manodopera, per trovare il migliore intreccio disponibile qui e subito.
In tre giorni a San Francisco, Rosalia Greco ha precisamente venti interviste con potenziali datori di lavoro, dopo aver mandato in giro 200 domande. Giulia Pavan ha recapitato la propria candidatura 85 volte e ha ottenuto dieci colloqui. A qualche isolato da qua, al ventiseiesimo piano del Marriott Hotel, Camilla Roncoroni (31 anni, da Erba in provincia di Como) sta uscendo dal suo decimo colloquio di lavoro di giornata. È paonazza. Fatica a parlare, dopo averlo fatto per ore da stamattina in poi. Sta per diplomarsi a Yale e presenta a tutti uno studio sugli effetti commerciali dei rapporti fra la politica locale e le Coop nelle città italiane. Prima di venire a San Francisco aveva mandato la candidatura a oltre 120 fra aziende e università – Europa e Stati Uniti – e ha strappato una trentina di colloqui di lavoro da tenere in due giorni e mezzo. «Stressante – riconosce —. Ma fa piacere che si interessino a me».
Se uno ci pensa, in questa piccola folla di italiani a San Francisco c’è un filo che porta indietro fino alle conseguenze involontarie di Benito Mussolini. Le leggi razziali del 1938 spinsero Franco Modigliani ad andarsene, approdare negli Stati Uniti, entrare nel Massachusetts Institute of Technology e vincere il premio Nobel per l’Economia. Fin dagli anni Settanta Modigliani aveva capito che l’Italia stava per incepparsi seriamente – lo scriveva sul «Corriere della Sera» – e cercò di smuovere le acque aprendo un canale per gli studenti più brillanti verso il Mit, perché poi tornassero e diventassero nel loro Paese una nuova élite migliore di quella di prima. La scommessa riuscì. Uno dei dottorati di Modigliani fu Mario Draghi, che poi sarebbe rientrato in Italia e oggi guida la Banca centrale europea.
Ma una volta aperto, con il peggiorare delle condizioni dei giovani nel Paese, il flusso è diventato sempre più a senso unico. Sola andata. Basta sfogliare con calma il mastodontico programma degli incontri dell’American Economic Association a San Francisco per capire cos’è questa parte d’Italia che non sta più nei confini. L’evento di San Francisco, 15 mila persone, oltre che una fiera del lavoro è anche una sterminata successione di seminari fra economisti al massimo livello. Vengono per presentare i loro lavori e ascoltare quelli altrui. Dei 1.500 e oltre partecipanti chiamati a parlare abbiamo contato 124 italiani, però con una particolarità: solo 37 vengono da istituzioni del loro Paese – la Bocconi in primo luogo —, gli altri 87 arrivano qua affiliati in molti posti diversi del resto del mondo. Non sono solo giovani stelle in ascesa come Matteo Maggiori di Harvard o stelle affermate con la forza del loro lavoro come Luigi Pistaferri di Stanford, un napoletano di Forcella cresciuto da origini umilissime fino a un posto di ruolo in una delle migliori università del mondo prima dei 45 anni. Questi fanno parte di una nuova generazione, la terza dai tempi di Draghi, che ormai trova difficile sia tornare che restare coinvolta anche a distanza dal proprio Paese.

È in questo nuovo ceto, di cui l’Italia si accorge a stento, che l’emorragia è allarmante. Sono quelli che semplicemente sono scappati pur di non buttare via se stessi e il proprio cervello. Gli economisti italiani della Banca di Finlandia. I professori italiani dell’università di Tbilisi, di quella della British Columbia in Canada, di Siviglia o di Praga. Non che sia una novità: c’è un deflusso continuo di intelligenza e istruzione, gli economisti danno solo il senso di un fenomeno più vasto che vale per medici, scienziati, umanisti e ora sempre di più anche per gli ingegneri e i giuristi. Delle centinaia di migliaia di italiani che ogni anno vanno all’estero (l’anno scorso 64 mila solo nel Regno Unito, secondo il governo di Londra), un quarto sono laureati e questa quota è crescente.
Le classi delle università americane schierate qui a San Francisco danno un’idea del deflusso e fanno sembrare l’Italia una superpotenza demografica, per chi non la conosce. Nel programma di dottorato di Stanford gli italiani sono sette, terza nazionalità dopo americani e cinesi. Nell’infornata di dottorandi di Yale sul job market gli italiani sono la nazionalità più presente, più degli americani stessi. Anche dal Boston College sono i più numerosi, otto su 50. La Federal Reserve americana quest’anno ha portato ai seminari di San Francisco ben quindici dei «suoi» italiani (da sola, quasi la metà di quelli espressi da tutta Italia).
Il problema non è che questi giovani vadano fuori e si affermino – al contrario – ma che poi il loro Paese non sappia che farsene. «I costi di questa perdita rischiano di diventare permanenti», osserva a San Francisco l’ex bocconiano 45 enne Enrico Moretti, che è diventato una star all’Università di California a Berkeley. Sul job market dell’American Economic Association erano presenti a sondare candidati solo la Banca d’Italia, la Bocconi di Milano, il Collegio Carlo Alberto di Torino e l’Istituto Einaudi di Roma. Il resto del Paese resta chiuso: l’Italia ha meno posti di dottorato per abitante in Europa dopo Spagna e Malta ed è la democrazia industriale con meno laureati in assoluto (anche fra i giovani). Eppure spinge gli istruiti ad andar via, anche perché per loro i salari d’ingresso nel mondo del lavoro sono bassi in modo umiliante: in Italia fa premio l’anzianità di servizio, non la competenza o l’efficienza.
«Andrò all’estero!». Quattro giorni dopo i colloqui di San Francisco, Giulia Pavan è già nel vivo. L’istituto Diw di Berlino, l’università di Tolosa e il centro studi di una Grande École di Parigi l’hanno subito invitata per un fly-out, un secondo incontro approfondito in sede. In caso di offerte finali avrà dieci giorni per decidere, pressata da ogni parte, ed è qui che il gioco si fa intensissimo. Anche Camilla Roncoroni e Rosalia Greco hanno avuto subito diversi fly-out fra gli Stati Uniti e Londra. «Devo pensare a dove voglio giocarmi le mie carte», dice Rosalia. Sta finendo sei anni di dottorato al Boston College, che si è pagata insegnando. «Per i ragazzi con cui ho studiato a Palermo è un’esperienza difficile da intuire». Si ferma un attimo e riprende: «Anch’io inizio ad avere un po’ d’ansia. Sta diventando tutto talmente personale».

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È q uasi ora di cena quando due ragazze si riparano dalla pioggia in uno Starbucks vicino a Union Square, a San Francisco. Una è di Roma, l’altra di Palermo. Poco lontano una galleria d’arte vende sei tele di Chagall, sette di Andy Warhol, quattro Dalì e dieci schizzi di Picasso, impedendoti di dimenticare per un solo istante che razza di persone vivano qui. All’altro angolo un senzatetto bianco, anglosassone e magari anche protestante chiede spiccioli in un bicchiere di carta fradicia quando ormai l’ora di punta è passata da un pezzo.
Su realtà del genere, il successo esplosivo dei distretti innovativi e le loro discrepanze, fra stasera e domani queste due ragazze si giocano tutto. Sono esauste e stranamente sovraeccitate. Si concentrano su certi dettagli che sembrano senza importanza. La siciliana, Rosalia Greco, 31 anni, nei suoi colloqui di lavoro sta presentando uno studio sulle disparità di reddito, ma ha già escluso una certa università americana che pareva interessata a lei: nella squadra degli intervistatori uno aveva i capelli sporchi e un altro, nota, «si puliva i denti con un’unghia mentre parlavo». La romana, Giulia Pavan, 28 anni, lavora su imprese e produttività e ha appena finito un colloquio con l’Istituto tecnologico autonomo del Messico. Si sentivano sotto esame anche gli intervistatori, lo ha percepito subito. «Mi hanno detto dieci volte che sono una top institution. Quello che mi ha intervistato ha un dottorato a Stanford in effetti – riflette —. Se mi invitano, ci vado».
Questo si chiama, letteralmente, il job market degli economisti. Il mercato del lavoro, da intendersi nello stesso senso in cui esiste quello della frutta in certe piazze, oppure delle opzioni sul rame o sul petrolio alla Borsa di Chicago. Sia detto senza ingiuria, perché non c’è ragione di non prendere tremendamente sul serio quello che accade in queste ore. È uno di quei momenti della vita di migliaia di persone, centinaia di italiani, in cui il tempo rallenta e prende una qualità speciale. Lo scambio fra obiettivi e disegni individuali tocca il suo punto di massima densità. Agli incontri dell’American Economic Association all’inizio di ogni anno circa seicento fra università, agenzie di studi, imprese di consulenza o banche – vengano dagli Stati Uniti, dall’America Latina, dall’Europa, dall’Asia o dal Medio Oriente – hanno ciascuna il proprio tavolo, ufficio o suite d’albergo, secondo il rango. E qualcosa come cinquemila candidati di decine di Paesi diversi si affacciano per tentare la sorte e trovare un posto di lavoro, ora che stanno finendo il dottorato dopo anni di studi. Girano un’infinità di tavoli. Arrivano qui con l’agenda piena, concentrati. Si presentano su appuntamento, e sono messi alla prova. Più duro è il colloquio, più intransigenti gli intervistatori nel cercare di aprire falle nei lavori che i candidati presentano, più diventa chiaro il messaggio: ci interessi. Vogliamo vedere di che pasta sei fatto. Le domande affilate e piene di spine servono a capire la stoffa dell’aspirante, ma sono anche un modo per i datori di lavoro di segnalare la propria qualità. L’intervista diventa una danza di parole dove il fine di entrambe le parti è m ostrare all’altra la propria attrattività intellettuale.

Come nei buoni pezzi teatrali, c’è unità di tempo e di luogo: tutta la domanda e tutta l’offerta globale di giovani economisti sono concentrate per 72 ore in due hotel attorno a Union Square a San Francisco (l’anno scorso era a Boston). Gli adolescenti lo troverebbero simile allo speed-dating in rete, una ricerca condensata nel tempo del partner più adatto. Agli adulti ricorderà il calciomercato. Ma gli economisti stessi lo definiscono quanto di più vicino esista a un mercato perfetto, quasi senza attriti. Si compete da entrambe le parti, venditori e compratori di manodopera, per trovare il migliore intreccio disponibile qui e subito.
In tre giorni a San Francisco, Rosalia Greco ha precisamente venti interviste con potenziali datori di lavoro, dopo aver mandato in giro 200 domande. Giulia Pavan ha recapitato la propria candidatura 85 volte e ha ottenuto dieci colloqui. A qualche isolato da qua, al ventiseiesimo piano del Marriott Hotel, Camilla Roncoroni (31 anni, da Erba in provincia di Como) sta uscendo dal suo decimo colloquio di lavoro di giornata. È paonazza. Fatica a parlare, dopo averlo fatto per ore da stamattina in poi. Sta per diplomarsi a Yale e presenta a tutti uno studio sugli effetti commerciali dei rapporti fra la politica locale e le Coop nelle città italiane. Prima di venire a San Francisco aveva mandato la candidatura a oltre 120 fra aziende e università – Europa e Stati Uniti – e ha strappato una trentina di colloqui di lavoro da tenere in due giorni e mezzo. «Stressante – riconosce —. Ma fa piacere che si interessino a me».
Se uno ci pensa, in questa piccola folla di italiani a San Francisco c’è un filo che porta indietro fino alle conseguenze involontarie di Benito Mussolini. Le leggi razziali del 1938 spinsero Franco Modigliani ad andarsene, approdare negli Stati Uniti, entrare nel Massachusetts Institute of Technology e vincere il premio Nobel per l’Economia. Fin dagli anni Settanta Modigliani aveva capito che l’Italia stava per incepparsi seriamente – lo scriveva sul «Corriere della Sera» – e cercò di smuovere le acque aprendo un canale per gli studenti più brillanti verso il Mit, perché poi tornassero e diventassero nel loro Paese una nuova élite migliore di quella di prima. La scommessa riuscì. Uno dei dottorati di Modigliani fu Mario Draghi, che poi sarebbe rientrato in Italia e oggi guida la Banca centrale europea.
Ma una volta aperto, con il peggiorare delle condizioni dei giovani nel Paese, il flusso è diventato sempre più a senso unico. Sola andata. Basta sfogliare con calma il mastodontico programma degli incontri dell’American Economic Association a San Francisco per capire cos’è questa parte d’Italia che non sta più nei confini. L’evento di San Francisco, 15 mila persone, oltre che una fiera del lavoro è anche una sterminata successione di seminari fra economisti al massimo livello. Vengono per presentare i loro lavori e ascoltare quelli altrui. Dei 1.500 e oltre partecipanti chiamati a parlare abbiamo contato 124 italiani, però con una particolarità: solo 37 vengono da istituzioni del loro Paese – la Bocconi in primo luogo —, gli altri 87 arrivano qua affiliati in molti posti diversi del resto del mondo. Non sono solo giovani stelle in ascesa come Matteo Maggiori di Harvard o stelle affermate con la forza del loro lavoro come Luigi Pistaferri di Stanford, un napoletano di Forcella cresciuto da origini umilissime fino a un posto di ruolo in una delle migliori università del mondo prima dei 45 anni. Questi fanno parte di una nuova generazione, la terza dai tempi di Draghi, che ormai trova difficile sia tornare che restare coinvolta anche a distanza dal proprio Paese.

È in questo nuovo ceto, di cui l’Italia si accorge a stento, che l’emorragia è allarmante. Sono quelli che semplicemente sono scappati pur di non buttare via se stessi e il proprio cervello. Gli economisti italiani della Banca di Finlandia. I professori italiani dell’università di Tbilisi, di quella della British Columbia in Canada, di Siviglia o di Praga. Non che sia una novità: c’è un deflusso continuo di intelligenza e istruzione, gli economisti danno solo il senso di un fenomeno più vasto che vale per medici, scienziati, umanisti e ora sempre di più anche per gli ingegneri e i giuristi. Delle centinaia di migliaia di italiani che ogni anno vanno all’estero (l’anno scorso 64 mila solo nel Regno Unito, secondo il governo di Londra), un quarto sono laureati e questa quota è crescente.
Le classi delle università americane schierate qui a San Francisco danno un’idea del deflusso e fanno sembrare l’Italia una superpotenza demografica, per chi non la conosce. Nel programma di dottorato di Stanford gli italiani sono sette, terza nazionalità dopo americani e cinesi. Nell’infornata di dottorandi di Yale sul job market gli italiani sono la nazionalità più presente, più degli americani stessi. Anche dal Boston College sono i più numerosi, otto su 50. La Federal Reserve americana quest’anno ha portato ai seminari di San Francisco ben quindici dei «suoi» italiani (da sola, quasi la metà di quelli espressi da tutta Italia).
Il problema non è che questi giovani vadano fuori e si affermino – al contrario – ma che poi il loro Paese non sappia che farsene. «I costi di questa perdita rischiano di diventare permanenti», osserva a San Francisco l’ex bocconiano 45 enne Enrico Moretti, che è diventato una star all’Università di California a Berkeley. Sul job market dell’American Economic Association erano presenti a sondare candidati solo la Banca d’Italia, la Bocconi di Milano, il Collegio Carlo Alberto di Torino e l’Istituto Einaudi di Roma. Il resto del Paese resta chiuso: l’Italia ha meno posti di dottorato per abitante in Europa dopo Spagna e Malta ed è la democrazia industriale con meno laureati in assoluto (anche fra i giovani). Eppure spinge gli istruiti ad andar via, anche perché per loro i salari d’ingresso nel mondo del lavoro sono bassi in modo umiliante: in Italia fa premio l’anzianità di servizio, non la competenza o l’efficienza.
«Andrò all’estero!». Quattro giorni dopo i colloqui di San Francisco, Giulia Pavan è già nel vivo. L’istituto Diw di Berlino, l’università di Tolosa e il centro studi di una Grande École di Parigi l’hanno subito invitata per un fly-out, un secondo incontro approfondito in sede. In caso di offerte finali avrà dieci giorni per decidere, pressata da ogni parte, ed è qui che il gioco si fa intensissimo. Anche Camilla Roncoroni e Rosalia Greco hanno avuto subito diversi fly-out fra gli Stati Uniti e Londra. «Devo pensare a dove voglio giocarmi le mie carte», dice Rosalia. Sta finendo sei anni di dottorato al Boston College, che si è pagata insegnando. «Per i ragazzi con cui ho studiato a Palermo è un’esperienza difficile da intuire». Si ferma un attimo e riprende: «Anch’io inizio ad avere un po’ d’ansia. Sta diventando tutto talmente personale».