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 2016  gennaio 16 Sabato calendario

Cronaca della festa per i quarant’anni di Repubblica

La festa per i 40 anni di Repubblica comincia con un video che garantisce: “Non abbiamo cambiato carattere”. Forse una excusatio non petita, forse (purtroppo) una tesi non più sostenibile dopo la deriva iper-renziana. Repubblica si celebra e lo fa con gusto e sfarzo, all’Auditorium di Roma, in una maratona che parte poco prima delle 20:30 e termina all’una di notte. La sala tiene 1.200 posti, per nulla esauriti. I due presentatori, Ernesto Assante e Gino Castaldo, commettono poi l’errore di invitare i presenti ad allontanarsi dopo l’intervento di De Benedetti e dei tre direttori (Scalfari, Mauro, Calabresi): “Sarà una maratona, se volete uscite e fate un break”. Molti li prendono troppo alla lettera, sfilano via e non rientrano più, stazionando al piano terra tra prosecchi tristi e scaglie sparute di grana. “Mangiamo alla faccia dell’Ingegnere”, scherza qualcuno, ma più che un buffet pare un omaggio tardivo all’austerity.
Chi se n’è andato dopo la parte giornalistica della serata, ha sbagliato. Si è perso Mark Hanna Super Band, Alex Britti, Luca Barbarossa, Di Battista (Stefano, non Alessandro). Tornatore, Telesforo, Arbore. De Gregori, Proietti, Venditti, Saviano. Eccetera. Una lista infinita, ora arricchita e ora indebolita da messaggi video. Tipo Jovanotti, che – in concerto a Düsseldorf – ha mandato una clip mediamente sconfortante. Passaggio forte: “Assante e Castaldo compiono 40 anni? Ah no, li compie Repubblica. Eh eh eh”. Eh eh eh. La serata è stata troppo lunga, ma piacevole. Con almeno due apici: l’intervento di Eugenio Scalfari, salutato con due standing ovation, e il monologo di Fiorello. Pochi, in sala, gli ospiti politici: Boldrini, Zingaretti, Tronca, Gabrielli. È stato letto anche il messaggio di auguri del presidente della Repubblica Mattarella.
Renzi non c’era e non è mai stato evocato da Ingegnere e tre direttori. Forse perché non era il caso, forse per non rispondere alla domanda che più inquieta: con l’arrivo di Calabresi, Repubblica diventerà (ancora più) renziana? Si vedrà. In platea Augias, Giannini, Zucconi, Damilano, Linus e Gruber. A un certo punto è partito il video live di Heroes, tributo naturale a David Bowie. Un po’ festa e un po’ celebrazione, pubblico non giovanissimo e neanche caldissimo (ma affettuoso sì). L’intervento di Carlo De Benedetti, pubblicato ieri sul quotidiano, ha ricordato la scommessa iniziale del 14 gennaio 1976: Scalfari ci credeva molto, l’Ingegnere per niente. Ascoltare di fila Scalfari, Mauro e Calabresi ha involontariamente dato la sensazione di un giornalismo col tempo indebolitosi, anzitutto nei riferimenti culturali e nei fondamenti intellettuali.
Calabresi ha avuto il merito di provare a muoversi in punta di piedi, conscio dell’impresa enorme – e degli scetticismi – che lo attendono. È perfino entrato prima che lo presentassero, per evitare forse l’imbarazzo di un applauso meno intenso dei precedenti. Ha detto quel che Calabresi dice sempre: che il giornalismo “è davvero il mestiere più bello del mondo”, che “sono cambiati i mezzi di distribuzione ma non il dna del giornalista”, che “ho fatto il giornalista perché sono curioso del mondo”. Sulla permanenza di Scalfari, convinto a restare perché “l’atmosfera di Repubblica” contempla il suo pezzo domenicale “anche se il direttore non lo condivide”, ha accettato il parallelismo nonno/nipote. Scalfari: “Più che papà ormai sono nonno. Anche di Mario. E i nonni vogliono bene ai nipoti, sì, però quando sbagliano glielo dicono”. Calabresi: “I nonni ti sgridano, poi però ti viziano”.
Castaldo ha provato a scongelare la piemontesità di Ezio Mauro, ma è stato respinto con perdite: “I piemontesi hanno un difetto: la testa dura. Ma hanno anche un pregio: la testa dura”. E alla domanda di Assante sul fatto che i giornalisti di Repubblica si sentano intimamente superiori agli altri, ha risposto così: “La differenza di Repubblica è quella di sentirsi club (pronunciato “cluuub”) dei nostri antenati. Siamo un giornale senza correnti e questo è un miracolo, perché sappiamo che la cosa comune vale più dei singoli. Sappiamo che sopra di noi c’è un tetto chiamato Repubblica”. Una sintesi che dà l’idea di un’appartenenza che spesso sfocia nel sentirsi parte di una Chiesa laica, tanto illuminata quanto dunque superiore.
Della serata di ieri resteranno soprattutto due cose. La prima è Fiorello, che ha sbertucciato anche Renzi: “Nel ’76 aveva un anno e già si arrabbiò perché Repubblica non pubblicò la notizia del suo compleanno”. Fiorello ha poi insistito sullo snobismo di Repubblica. In questo modo ha ravvivato la serata e soffiato via la polvere dell’autoreferenzialità. “Mi hanno chiamato, ma si vergognavano di mettermi tra gli ospiti accanto a De Gregori. A Repubblica piace solo la nicchia, io in tivù facevo il 53% e quindi facevo cacare. Sono stato a visitare la villa dell’Ingegnere a Dogliani: non è lei ad avere la vista sul Cervino, è il Monte Cervino che guarda la villa (forse però è il Monviso, nda). Nel ’76, quando siete nati, io leggevo E-Iacula e Zora La Vampira, però grazie a voi scoprii che Repubblica si scrive con due ‘b’. Comunque la serata ha poco ritmo, siete venuti per divertirvi e dietro le quinte la gente si sta sentendo male. Ve lo giuro. I pompieri ci sono solo per Venditti. Gli chiedono di smettere di fumare, e lui: ‘Nun me rompete er cazzo!’. La situazione è davvero drammatica”. Se Fiorello è stato travolgente, Scalfari ha mostrato un candore insospettabile. Autoironico, abile nel giocare con i presentatori, commosso nel ricordare i tempi andati. Esilarante nello svelare alcuni dialoghi con Papa Francesco. Tenero nel citare l’esergo (anzi “exergo”) di Proust. E malinconicamente crepuscolare nel dimostrare in pochi minuti come certi maestri, ora condivisibili e ora per niente, incarnano un giornalismo la cui eleganza – e spesso bellezza – non ha forse figliato quanto era lecito sperare.