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 2016  gennaio 16 Sabato calendario

Ritrattino di Jean-Claude Juncker

Jean-Claude Juncker è nato a un solo parto col potere: del potere ha i pochi pregi e tutti i difetti a partire da una brutalità talmente esibita da essere scambiata da qualcuno per una propensione alla gaffe. Non è così: “L’autorità dimentica un re morente”, ha scritto Tennyson, e Juncker con lei. Per la debolezza, il presidente della Commissione europea non ha alcun rispetto, nemmeno quelle delle buone maniere. Per questo la sua uscita così irriverente nei confronti dell’Italia dovrebbe preoccupare Matteo Renzi.
Questo politico lussemburghese, nato nel 1954, iscritto a vent’anni alla locale filiale dei Cristiano Democratici, dagli anni 80 è stato senza una poltrona solo per pochi mesi: laureato in legge, assistente parlamentare dal 1980, quattro anni dopo è deputato e ministro del Lavoro del Lussemburgo, piccolo Paese già avviato ad essere un paradiso fiscale nel cuore d’Europa.
Da allora, eccetto i primi dieci mesi del 2014, il nostro è sempre stato qualcosa: ministro delle Finanze o del Tesoro dal 1989 al 2013; premier per 18 anni (1995-2013); presidente dell’Eurogruppo, cioè del consiglio informale dei ministri economici Ue, dal 2004 al gennaio 2013, quando fu dimissionato dalla Germania perché non aveva capito chi comanda (“considera l’Eurozona come una sua filiale”, disse lui). Dal 1° novembre 2014 è presidente della Commissione Ue. La sua lista di onorificenze è una mappa dell’Europa che include anche l’Italia: è Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica.
La sua stella sembrava incrinata nel 2013: dopo essere stato cacciato dall’Eurogruppo, fu costretto a dimettersi pure da premier del Lussemburgo per una storiaccia di spie e dossier illegali (negò di esserne a conoscenza finché il capo degli 007 non esibì la registrazione dei loro colloqui in merito nel 2008). Nel 2014, però, è risorto come l’araba fenice dalle sue ceneri, nonostante lo scandalo LuxLeaks: centinaia di documenti che dimostravano come il governo del Lussemburgo (il suo) avesse permesso a molte grandi aziende – con accordi segreti – di eludere il fisco dei rispettivi Paesi per miliardi.
Juncker, però, è inaffondabile. Forse il fato premia la sua brutale sincerità. Un breve elenco aiuterà a comprendere di cosa stiamo parlando: “Quando la situazione si fa seria, bisogna mentire” (sulla crisi greca nel 2011); “sono pronto a essere insultato per non essere abbastanza democratico, ma voglio essere serio: io sono per i dibattiti segreti” (sulla politica monetaria); “se dicono ‘sì’ andiamo avanti e se dicono ‘no’ uguale” (sul referendum francese sulla Costituzione Ue); “noi sappiamo cosa fare, ma non sappiamo come essere rieletti dopo averlo fatto” (sull’austerità); “non ci può essere nessuna scelta democratica contro i Trattati Ue” (dopo la vittoria di Tsipras); “ciao dittatore” (al premier ungherese Orbán).
A volte non serve nemmeno che parli: a maggio 2015 si mise a parlare al telefono durante una conferenza stampa con la presidente croata Grabar-Kitarovi e e tutti hanno capito quanto Zagabria conti a Bruxelles. La sua chicca immortale, però, rimane la sua descrizione del metodo del Consiglio europeo: “Noi decidiamo qualcosa, la facciamo circolare e vediamo che succede. Se nessuno fa casino, perché la gente non capisce cosa è stato deciso, allora andiamo avanti passo passo finché non si può più tornare indietro”. Non si dica che non ci aveva avvertito.