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 2016  gennaio 16 Sabato calendario

Il figlio di Hunter Thompson confessa la sua vita difficile con l’eroe del gonzo journalism

Hunter Thompson scriveva come viveva. Ma ovviamente Hunter non era solo il simbolo del cosiddetto gonzo journalism, né una caricatura degli anni Sessanta. Era un uomo – un individuo imperfetto noto per i suoi violenti scatti d’ira, le aggressioni verbali immotivate, le giornate corte e le notti lunghe. Il primo testimone delle sue imprevedibili reazioni fu suo figlio. A oltre dieci anni dal suicidio di Hunter, esce il libro di memorie “Stories I Tell Myself” (Storie che mi racconto) di Juan F. Thompson, che narra il lungo percorso di riconciliazione tra padre e figlio, un viaggio di amore e perdono che insegna come accettare una persona quando non c’è speranza di cambiarla. È un ritratto di Hunter come persona, non personaggio, attraverso pagine buffe e spaventose, serate dense di alcol e di fumo, amici famosi e ammiratori, grandi viaggi e insicurezza finanziaria. Juan condivide con i lettori i 41 anni coinvolgenti e spaventosi vissuti con lui: la casa di Woody Creek, in Colorado, zeppa di armi, i pensili della cucina pieni di munizioni; le folli corse da piccolo sul sellino di potenti motociclette; il distacco dalla famiglia e dal suo ambiente. Il volume inizia con la nascita di Juan e finisce con lo spettacolare funerale di Hunter, con le ceneri sparate in aria da un cannone.
Perché questo libro?
«Per un insieme di cose. Innanzitutto non avevo mai scritto un libro intero e non avevo idea dell’impresa in cui mi imbarcavo. Mio dio, all’inizio mi è sembrato semplice, nel giro di un anno avevo pronta una prima bozza, lo scheletro. Difficile è stato uniformare quello che avevo buttato giù, rendere la storia accattivante, darle un capo e una coda. E difficilissimo è stato scrivere di mio padre e del mio passato, molto più complicato di quanto pensassi. Immaginavo che ricordare sarebbe stato semplice, invece si è trattato di un pesante processo emotivo che mi è costato fatica e ha richiesto lunghe pause. Magari non guardavo il manoscritto per sei mesi, poi lo riprendevo in mano con occhi diversi. Evidentemente mi serviva tempo. Se lo avessi finito in un anno, il libro sarebbe stato unidimensionale. Ero in lutto. Mi sarei concentrato sulla mia perdita. Ci sono voluti anni per riflettere sulla sua vita e rendermi conto che dovevo dire di più, con onestà».
Lei ammette di essersi basato su ricordi talvolta inattendibili. Il titolo del libro allude proprio a questo.
«Ho dovuto conciliare lo scrittore, questa caricatura, con l’uomo che mi ha cresciuto, mio padre. C’è del vero in entrambi. Bisognava proteggere Hunter, essergli fedeli. Mi ci è voluto un bel po’ per rendermi conto che adesso che è morto non ho più quell’obbligo. Sta a me dire quello che reputo importante, invece di quello che lui vorrebbe che dicessi se fosse in vita. Sarebbe stato difficile scrivere questo libro e lui fosse stato ancora vivo».
Come avrebbe reagito?
«Difficile dirlo, non si capiva mai bene cosa pensasse, ma credo che si sarebbe arrabbiato, perché avrebbe dovuto affrontare le conseguenze di quelle mie verità. Ma credo che da me si sia sempre aspettato sincerità. Da morto mi direbbe invece di non nascondere nulla, di dire la verità».
Lei ora ha una vita tranquilla, abita in Colorado, lavora nell’informatica. La normalità, definiamola così, è stata per lei una forma di ribellione?
«Credo proprio di sì. Certo non consapevole o intenzionale. Penso sia stata una reazione all’incertezza che comporta una vita di follie. Innanzitutto Hunter era un freelance, non c’era la sicurezza economica del posto fisso. E poi fin da bambino e poi da adolescente ho sempre saputo che non volevo vivere come mio padre. Per lo più ho rifiutato droga e alcol. Credo proprio di avere un’indole diversa. Lui era nato per essere Hunter».
Lei ha scritto che il maggior paradosso di Hunter era “la presenza di un genuino interesse nei confronti del prossimo associato a un profondo egocentrismo”. Se ad esempio lei non salutava qualcuno come si deve si arrabbiava, pur non avendole mai insegnato le buone maniere.
«Era così irascibile, e credo che invecchiando fosse peggiorato. Esplodeva alla minima provocazione, come dimostrano infinite testimonianze. Da bambino mi spaventavo moltissimo e non mi sono mai abituato, neppure da adulto. Ho imparato a gestire la cosa, lasciando perdere, ma certo è sempre stato molto sgradevole».
Oltre a nuotare e andare al cinema un altro rituale tra lei e suo padre era pulire le armi e sparare. Perché?
«Non vedo una valenza particolare, ma mi piaceva sparare e ovviamente le armi erano molto importanti per Hunter. Per usarle bisognava pulirle. È un hobby virile che condividevamo. Probabilmente coglievamo così l’opportunità di fare qualcosa ci unisse. Così le armi hanno assunto un’importanza rituale».
Ha sempre saputo che suo padre si sarebbe sparato?
«Sì. Ha ripetuto per anni che si sarebbe ucciso e che lo avrebbe fato con un’arma da fuoco».
Impossibile evitarlo?
«Come si fa? Aveva minacciato già in precedenza di togliersi la vita e lo avevamo calmato. Ma se Hunter voleva fare una cosa la faceva, senza che nessuno potesse fermarlo. Non era tipo da andare in ospedale o in una casa di riposo. Ma non pensavo certo che succedesse proprio il fine settimana in cui ero andato a trovarlo con la mia famiglia».
Lei quel giorno aveva pulito la calibro 45 con cui Hunter si è sparato. Implicitamente usando quell’arma suo padre l’ha coinvolta nel suo suicidio. Lo considera un gesto d’amore?
«Si, credo sia stato per amore. Credo che ci volesse lì per non morire da solo. Credo che non volesse che fossero degli estranei o la polizia a trovarlo, voleva che ci fossimo noi, che ci fossi io, per essere certo che le cose sarebbero state fatte con rispetto. È stata l’ennesima dimostrazione dei suoi paradossi, esprime la fiducia e l’amore che nutriva per me e mia moglie, ma nello stesso tempo è stato un gesto molto egoista. Non ha pensato minimamente all’impatto che avrebbe avuto su di noi, non che lo abbia trascurato, proprio non ci ha pensato».
Hunter è morto a Owl Farm, la casa di Woody Creek in Colorado in cui viveva da tempo. Anche lei sembra molto legato a quella casa.
«Sono cresciuto a Owl Farm – è lì che ho i primi ricordi. Ma è stata molto più di una casa perché era così importante per Hunter. Era la sua base, le sue fondamenta, lì poteva fare qualunque cosa volesse, era il luogo in cui poteva sempre tornare».
Lei ha preso acidi con sua madre (mai con Hunter)a 14 anni. Scrive che suo padre si sarebbe arrabbiato – ricorda di averlo sentito affermare in pubblico che l’avrebbe “gonfiato di botte” – se avesse saputo che aveva preso Lsd, anche se poi da adulto le ha offerto droghe. A quanto sembra suo padre non l’ha incoraggiata a trasgredire.
«Hunter era sorpreso e contento che fossi cresciuto apparentemente equilibrato, in grado di gestire un lavoro e una relazione di coppia. Credo che sarebbe stato sconvolto se avessi deciso di emularlo. Hunter diceva sempre che ciascuno deve fare le cose sue, non quello che fanno gli altri. Quindi si, era sollevato che non avessi fatto la sua fine. Per un lungo periodo ero riluttante anche al solo pensiero di scrivere, di essere paragonato a Hunter. Il mio stile quindi è totalmente diverso dal suo C’è gente che cerca di imitare lo stile di Hunter. Meglio di no… ( ride) non è cosa».
(Articolo originariamente pubblicato su Salon.com La versione online è presente in archivio. La presente ristampa è autorizzata. Traduzione di Emilia Benghi)