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 2016  gennaio 16 Sabato calendario

I detective del Viminale che lavorano sui vecchi casi irrisolti

Sono detective maniaci del dettaglio nascosto nella polvere: spulciano fascicoli, cercano indizi trascurati, riesaminano tracce con nuovissime tecniche di laboratorio. Non si abbattono mai. Le Procure hanno creato squadre speciali apposta per questo: rileggere vecchi casi con le nuove tecniche di indagine scientifiche. E così, dopo dieci, venti, trent’anni di buio, ecco il lampo di luce laterale: quello decisivo.
Nella carambola americana la palla n° 8 è quella che decide la partita: se la mandi in buca per ultima vinci, ma se cade per prima perdi tutto. Frammenti di impronte digitali, nanogrammi di Dna, la fibra di un capello, tracce della pianta di una suola di scarpa sul tappetino dell’auto, un pelo, la googlata che puzza. Game over. Anzi no: riaprire il caso. Si ricomincia. Una lettera apocrifa riemersa a disvelare la grafia dell’assassino (caso Macchi). La salma riesumata e un femore che “parla”: e salta fuori la paternità cruciale per centrare un bingo lontano 20mila prelievi biologici (Yara Gambirasio). Quando il ghiaccio si scioglie a volte il merito va a un guizzo della sorte; altre ai passi avanti della scienza, sempre più raffinata; altre volte al detective che non molla. Ci sono voluti 18 anni, tra errori madornali e sospette insabbiature, a scoprire che il sangue e la saliva trovati sul cadavere di Elisa Claps – rinvenuto incredibilmente a 17 anni dalla scomparsa nel sottotetto di una chiesa – era del suo amico assassino Daniele Restivo. Che intanto fa in tempo a uccidere un’altra donna in Inghilterra (la vicina di casa Heather Barnett, massacrata nel 2002 a Charminster) dove si è trasferito e coltiva l’hobby di andare per boschi con in mano uno stiletto a inseguire le sue prede. Poi ci sono le intuizioni dell’investigatore: come l’esca della lettera anonima con cui, 32 anni dopo l’omicidio, roba di ‘ndrangheta, la squadra mobile di Torino incastra Rocco Schirippa, il killer panettiere del procuratore Bruno Caccia. Anche lì: seguendo la parabola implacabile della giustizia, la storia si compie.
Di solito funziona così. Dimenticatevi per un attimo la serie tv. Se traduci subito cold case nel letterale “casi freddi” – talmente freddi da congelarsi nell’arco di decenni, e divenire dunque impenetrabili – capisci qual è il punto. La risoluzione, certo. Ma il punto vero è il come. Prendiamo Garlasco. Cinque processi e due assoluzioni: pensava di avere sfangato la tempesta imperfetta Alberto Stasi, di avere allontanato i demoni della legge. Tempo a favore, tempo contro. Non poteva più essere lui, il commercialista bocconiano, ad avere massacrato Chiara in fondo alle scale di casa la mattina del 13 agosto 2007: otto anni e l’iceberg teneva, tra leggerezze investigative, sviste clamorose, “dimenticanze”, e pedali di bicicletta cambiati, perizie sghembe, di tutto compresi i tappetini immacolati della Golf dello Stasi “scopritore” che cammina sul sangue senza sporcarsi. Vuoti troppo ingombranti perché dei giudici non decidano di ordinare la revisione del giallo senza colpevole. Fino al 12 dicembre, un mese fa: sentenza definitiva, 16 anni.
L’Italia e i delitti freddi. Sempre meno freddi. Perché se è vero che l’iper- riscaldamento globale ritarderà la prossima era glaciale di 50mila anni, è anche vero che mai come in questi anni al pallottoliere degli omicidi irrisolti si riesce a sfilare pallina dopo pallina. O comunque a rimetterle in gioco. L’ultima sferetta venuta giù dall’abaco è il caso del Circeo con la riesumazione della salma di Andrea Ghira alias Massimo Testa. E andando indietro nel tempo: l’esecuzione mafiosa di Carlo Rostagno, l’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre. Ci sono casi meno mediatici come quello del nomade Giuseppe De Rosa, falciato a Milano nel ’76 dal piombo – si scoprirà 38 anni dopo – di Rocco Papalia, storico boss della ‘ndrangheta.
Quali segreti e quali talenti occorrono perché il tempo getti luce sui misteri? Ci sono, nel nostro paese, squadre speciali istituite apposta per riaprire e risolvere le inchieste sanguinarie archiviate senza colpevole. L’acronimo Udi sta per Unità delitti insoluti: l’ha voluta nel 2009 l’ex capo della Polizia Antonio Manganelli. A Torino, da tre anni, opera un pool di segugi specializzato nei cold case.
«Se i reperti sono conservati bene, con le possibilità che ci offre oggi la scienza si può giungere a risultati insperati – dice Marzio Capra, ex vicecomandante del Ris di Parma, genetista forense, consulente scientifico in molti casi noti di “nera” –. Ma se conservi reperti che non analizzerai mai, è solo spreco di risorse. Per inciso: dopo cinque anni, con l’autorizzazione delle varie Procure, noi buttiamo tutto». E intanto magari la soluzione si allontana: ricordate il caso Unabomber? E i due fratellini di Gravina di Puglia? La verità è finita in fondo al pozzo. Sui fascicoli restano impressi tanti Mister X, o Ignoto 1, come chiamavano Massimo Bossetti prima che lo incastrasse il Dna. La palla n°8 della carambola.