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 2016  gennaio 16 Sabato calendario

Perché le Borse crollano?

Raffaella Polato per il Corriere della Sera
Auto. Un paradosso, a prima vista. In teoria il solito di sempre: l’industria che va, la finanza che non ne tiene conto. E picchia. La prima parla la lingua della crescita: i crolli di Brasile e Russia ci sono, certo, però con 17,5 milioni di auto vendute gli Usa 2015 battono ogni record, l’Europa torna prima del previsto sopra i 14 milioni, la Cina lancia incentivi anti-rallentamento che, rivolti alla classe media, fanno tirare un gran sospiro di sollievo ai costruttori generalisti. Né il trend pare esaurito. La sfilata di big che hanno iniziato a ritoccare al rialzo le stime dei profitti 2015 sarà probabilmente meno spettacolare a fine 2016. Ma gli utili globali non saranno comunque poveri, da una base di immatricolazioni che Ihs Automotive vede salire di un altro 2,7%. A un soffio dai 90 milioni: 89,9. Insomma: le macchine si vendono, le aziende guadagnano. Non sta qui (per ora) il problema. Ma c’è qualcosa che va oltre il contingente se oggi, quasi a prescindere dalle ragioni per cui affondano, le Borse scaricano subito come zavorra i titoli dell’auto. Quel qualcosa è la sostenibilità del sistema. Nessuno, per grande che sia, può illudersi di finanziare da solo i nuovi must del successo o della semplice sopravvivenza: il taglio dell’inquinamento – niente ipocrisie, tutti stanno sopra i limiti: però c’è una differenza tra il caso Renault e i trucchi Volkswagen – e l’auto digitale. Se poi davvero con Google, Apple, Tesla ci sarà bisogno di meno macchine, beh, sul serio la soluzione sta nelle «fusioni tra uguali»? A Sergio Marchionne, forse, alla fine il «no» di Gm per certi aspetti è andato bene. Chi ha senso corteggiare sta nella Silicon Valley. E infatti è un ballo affollato.

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Stefano Agnoli per il Corriere della Sera
Petrolio. Il petrolio sotto i 30 dollari spaventa le Borse. Ma bisognerebbe distinguere tra quando il barile è causa diretta o solo un sintomo del malessere. Ai mercati europei il calo del greggio fa paura perché gli operatori vi leggono il segnale che la crescita delle economie è debole. Se la Cina perde la sua verve il prezzo del barile ne risente, e i listini perdono terreno. Ma non solo nell’auto si riscontrano paradossi. Ciò che è curioso è che la domanda mondiale di petrolio, nel 2015, è cresciuta di 1,8 milioni di barili al giorno, mentre secondo l’Iea dovrebbe crescere di altri 1,2 milioni di barili al giorno nel 2016. Il punto è che tra domanda e offerta rimane un divario a favore di quest’ultima (1,5 milioni di barili nel terzo trimestre 2015) che è il risultato dello scontro in atto sulle quote di mercato. Un braccio di ferro Opec-non Opec acuito dall’atteso rientro a pieno titolo dell’Iran sul mercato petrolifero, il che si tradurrebbe in un altro mezzo milione di barili al giorno in più e in quotazioni in ulteriore calo. Diverso, invece, è il caso di Wall Street. Il boom del greggio «non convenzionale» ha reso gli Usa la prima potenza petrolifera del mondo. Gli Usa sono sia grandi consumatori sia grandi produttori. E come tali non possono non risentire del prezzo sotto 30 dollari. A quei livelli il giocattolo delle compagnie indipendenti (il nerbo dell’industria energetica americana) rischia grosso. Quaranta fallimenti dall’inizio della crisi, settanta possibili, previsioni secondo le quali un terzo delle compagnie potrebbe andare a gambe all’aria. Logico, in questo caso, che le Borse scontino la paura del petrolio.

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Giovanni Stringa per il Corriere della Sera
Cina. Mesi fa, la notizia del giorno dalla Cina sarebbe stata la maxi acquisizione dell’americana Ge Appliances da parte dei cinesi di Haier, annunciata ieri. Prezzo: 5,4 miliardi di dollari. Ge Appliances (divisione di General Electric) è una delle maggiori aziende di elettrodomestici per la cucina e di lavatrici negli Stati Uniti, con prodotti che regnano nelle case americane da decenni e decenni. Ma a muovere i mercati internazionali, ieri, è stata un’altra Cina: non le aziende che fanno shopping miliardario negli States, bensì il nuovo tonfo della Borsa di Shanghai, in calo del 3,5% con una serie di (almeno) tre allarmanti considerazioni di contorno. Primo: da inizio 2016, in sole due settimane, il listino della capitale economica del Dragone ha perso il 18%. Secondo: la Borsa è scesa ai livelli più bassi (di fine seduta) dal dicembre 2014. Terzo: le quotazioni a Shanghai sono quindi più basse anche delle chiusure della scorsa estate, quando l’effetto-Cina aveva iniziato a scuotere pesantemente i mercati internazionali. In quei giorni, durante le contrattazioni, i listini del Dragone erano scesi anche più sotto, per poi però riprendersi a fine seduta. Allora, come ieri, i crolli hanno spinto le Autorità a venire in soccorso dell’economia. Ieri è stato il turno di un’iniezione di 100 miliardi di yuan (15 miliardi di dollari) sulle piazze finanziarie. L’ultima ragione che ha convinto i vertici cinesi a muoversi (e la Borsa di Shanghai a scendere) è la statistica sui prestiti bancari a dicembre, più deboli del previsto. Colpite dalla stretta sembrano essere le piccole e medie imprese, più che i grandi gruppi come Haier e il suo shopping.