Corriere della Sera, 15 gennaio 2016
Come cucinava Pollock
Più che un picnic da consumarsi on the beach, magari su una delle spiagge dei suoi amati Hamptons, sembra una vera e propria tavolozza, quasi un manifesto (non tanto da guardare, ma piuttosto da mangiare) del dripping: la tecnica che ha reso celebre e unico Jackson Pollock(1912-1956), uno dei grandi dell’arte americana, il genio dell’espressionismo astratto e dell’ Action painting, lo stesso che viene in questi giorni celebrato dal Moma (A collection survey, 1934-1954). In pratica è come se l’idea «di far gocciolare il colore su una tela posta in orizzontale, determinando la colatura del colore con gesti rituali e coreografici» fosse passata direttamente dallo studio alla cucina di Pollock: dove a farla da padrona erano in particolare la moglie, pure lei artista, Lee Krasner, e la madre Stella. Proprio a lei si devono,ad esempio, le oltre novanta ricette di dolci e dessert (tra cui un incredibile millefoglie e un altrettanto pregevole apple pie non a caso chiamato in questa guida Jackson’s Prize Winning Apple Pie insomma un dolce da premio). E viene da chiedersi, come fa Robyn Lea, l’autrice di questo Dinner with Jackson Pollock. Recipes, Art & Nature (Assouline, $ 50) se qualcosa della genialità del grande artista non arrivasse proprio da questa donna di campagna abituata a sfogare la sua passione per la cucina in qualcosa che andasse bene per sfamare i suoi cinque figli.
Tutto parte dalla convinzione dell’autrice «che tutti quanti trascorriamo una buona parte della nostra vita in cucina, più o meno consapevolmente, ma il nostro rapporto con il cibo e il cucinare è strettamente personale, diverso da tutti gli altri». E questo vale anche per gli artisti: non a caso, in quasi contemporanea al libro fotografico di Robyn Lea, è uscito anche Monet’s Palate Cookbook di Aileen Bordman e Derek Fall (Gibbs Smit, $ 22), a sua volta dedicato al pittore delle Ninfee e alla sua idea di cucina (molto tradizionale), una passione che si ritrova in alcune sue celebri nature morte, soprattutto con frutta (pesche e uva in particolare) realizzate nella casa di campagna di Giverny, «dove – secondo le autrici – arte e cucina si sposavano alla perfezione». Guardare il genio dal buco della serratura è uno sport molto amato e molto redditizio, almeno in termini di lettori, specialmente se si parla di storie vissute in camera da letto. Ma le sorprese non mancano, e possono essere altrettanto intriganti, se si guarda un genio dell’arte alle prese con forni, fornelli e spezie varie. «Mio zio cucinava come dipingeva – racconta la nipote Francesca Pollock —, prendendo e magari riusando le stesse materie prime per varie ricette, senza mai buttare via nulla». Un genio, dunque, del riciclaggio alimentare. Ma c’è di più: descritto come genio alcolico e dal temperamento assai irascibile Pollock appare in cucina come una persona tranquilla e costantemente impegnata in diete disintossicanti per liberarsi dal vizio dell’alcool (da qui la sua passione per il cibo naturale), ma anche nella preparazione di piatti «semplici ma molto gustosi», soprattutto gli spaghetti con la salsa o il polpettone. Anche se la sua grande passione sembra essere stata quella di fare il fornaio o il pasticcere, almeno in cucina.
Dunque: pane, dolci e pasticcini a volontà. Un universo gastronomico very quiet come testimoniano gli snapshot realizzati dall’autrice nella cucina di Pollock, le ricette «autografe» scritte con mano ferma quasi da massaia, le «ricostruzioni» dei suoi piatti che nella loro semplicità sembrano uscire dal Manuale di Nonna Papera. In fondo è, però, solo apparenza, perché il bianco sulle scarpe-cimelio conservate nella sua casa museo, potrebbe essere tranquillamente zucchero e quelle scarpe essere di un genio, non dell’arte, ma della pasticceria.