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 2016  gennaio 15 Venerdì calendario

Claudio Abbado cambiava e aggiungeva parti alle opere di Verdi

Claudio Abbado «correggeva» Giuseppe Verdi. A due anni dalla morte del grande direttore, che avvenne il 20 gennaio, il nuovo numero di Studi verdiani per la prima volta ci porta dentro il suo «cantiere» e fa sconvolgenti scoperte. Andrea Estero – direttore di Classic Voice e responsabile del progetto Musica del ’900 della Società italiana di musicologia – non nega «la capacità quasi rabdomantica (...) di trasferire agli orchestrali le sue intenzioni interpretative», «uno speciale magnetismo», «un’intesa quasi alchemica attivata da sguardi e gesti». Anzi, verifica con testimonianze i tratti ricorrenti della pubblicistica su Abbado, comuni alla mitologia dei maggiori maestri. Ma concentra l’indagine sulle partiture verdiane annotate da lui. Le consulta per giorni a Casa Ricordi a Milano e negli archivi dei Berliner Philharmoniker. Ne emerge «una realtà che, se non contraddice la leggenda, la radica in una metodologia» coerente.
Abbado interviene sulla partitura in modi diversi: con segni di attenzione per se stesso, con indicazioni rivolte ai musicisti per facilitare la lettura, con sottolineature riservate ai cantanti, con aggiunte «anche di parti musicali non presenti nell’originale». È quest’ultimo l’aspetto più sorprendente per un «protagonista di importanti operazioni di restauro su testi compromessi» dalla cosiddetta tradizione: il Barbiere di Rossini, il Don Carlo di Verdi, Boris Godunov e Chovanšcina di Musorgskij.
Nella partitura del Simon Boccanegra Abbado corregge Verdi fin dal primo atto: su «E l’effigie non somiglia a questa?» «fa raddoppiare la melodia dello “stringendo poco a poco” affidata ai violini primi e ai flauti anche ai violini secondi, ispessendone la grana, e affida il disegno dei violini secondi alle viole». A pagina 131 della partitura di Falstaff il direttore «aggiunge alla parte di fagotti, trombe e tromboni anche i corni e i violoncelli. In quella di «Otello» capita «che le svettanti linee dei violini primi siano sostenute dai violini secondi e dalle viole, entrambi non previsti dall’autore, per dare corpo alle vigorose impennate emotive». Altre volte «sono i corni a raddoppiare la parte delle trombe (e dei violini e legni), come nel coro «Evviva il Leon di San Marco».
Otello è il culmine del rapporto di Abbado con Verdi, che eseguì la prima volta a trentadue anni: Te Deum al Comunale di Firenze. A trentacinque la prima opera: Don Carlo, regista Luchino Visconti, alla Royal Opera House di Londra poi, nello stesso 1968, al Metropolitan di New York e alla Scala. Nel teatro milanese, del quale dal 1971 è direttore musicale dell’orchestra (dal ’72 dell’intera produzione artistica), l’impegno verdiano si fa più serrato. Senza Otello, che Abbado affronta solo a Berlino il 30 novembre 1995, in forma di concerto alla Philharmonie, per portarlo in scena con i Berliner e la regia di Ermanno Olmi il 30 marzo 1996 a Salisburgo e l’8 maggio 1997 al Teatro Regio di Torino. Estremo corpo a corpo con il compositore, con le fonti letterarie, con l’idea stessa del teatro in musica.
Una «sensibilità per i nuovi equilibri sonori è testimoniata in tutta la partitura (...)». Il concertatore procede con anomale aggiunte di parti». Qui «sostiene la presenza degli archi cancellando il diminuendo sulle volatine dei violini». Là «sposta le viole a raddoppiare la scala cromatica ascendente di violoncelli, contrabbassi e fagotti». Più avanti «chiede ai corni di raddoppiare il motto squillante e sinistro di violoncelli, contrabbassi e fagotti (mentre Verdi aveva previsto per i corni solo un mi bemolle di riempimento armonico)».
Ogni indicazione è trasmessa alle singole parti orchestrali prima della prova. Il professore d’orchestra «dispone così sul leggio di una guida completa alle prescrizioni del direttore (...) comprese in qualche caso le arcate». Più intuibile il gesto del maestro, che ha tutto chiaro nella memoria, e naturale il suo «parlar poco».
Sorprende la disinvoltura con la quale Abbado piega la scrittura verdiana alle sue intenzioni espressive. Rivelatore l’inedito confronto dell’Otello secondo Abbado con quello di Toscanini (1947), di Karajan (1961) e di Carlos Kleiber (1976), ottenuto a Londra in un istituto specializzato nel rendere oggettive le impressioni della critica visualizzando con dei grafici le dinamiche sonore delle quattro incisioni. Si nota, per esempio, come Abbado sia l’unico a diminuire immediatamente il «fortissimo» della tempesta iniziale.
Chi è stato più fedele alla scrittura verdiana? O la fedeltà assoluta non è mai esistita, come diceva Hans Swarowski, maestro viennese di Abbado, Mehta e Sinopoli? Si può correggere l’autore, anche quando si chiama Giuseppe Verdi? L’omaggio finora più ragionato all’arte di Claudio Abbado farà discutere.