15 gennaio 2016
In morte di Franco Citti
Maurizio Porro per il Corriere della Sera
Dalle 17 di ieri non c’è più Franco Citti, l’Accattone di Pasolini: si è fermata la Passione secondo Matteo di Bach che segnava il suo destino nel film e lo benediceva per sempre.
L’attore, 80enne e malato, s’è spento nella casa di Fiumicino, dove ha vissuto gli ultimi anni al buio, colpito da ictus, povero aiutato dalla legge Bacchelli: la notizia l’ha data Ninetto Davoli, un altro ragazzo di vita pasoliniano, come il fratello Sergio morto nel 2005. Per lo scrittore di Una vita violenta furono il lessico vivente romanesco, l’umanità intonsa di una gioventù che si andava omologando a sogni e bisogni piccolo borghesi, con cui lui, arrivato da Casarsa, giocava a pallone nella periferia romana.
La vera famiglia Citti, che ebbe due mogli e tre figli, fu quella delle borgate nel cui volto c’è la disperazione dell’umanità umiliata, dove Dio non ha mai suonato al citofono, quella che non tiene cravatte nell’armadio. Quell’Italia in bianco e nero ripresa da Pasolini in una gran stagione del nostro cinema e in una opera omnia ostacolata dai benpensanti ma che comprendeva il divenire del Paese e diventò stile e modello (vedi ora Non essere cattivo di Caligari). «Accattone e Franco — disse l’autore — si somigliano come due gocce d’acqua».
Nato a Roma il 23 aprile ’35, figlio di un imbianchino, preso dalla borgata (complemento di specificazione della strada neorealista), Franco fu per Pasolini benedizione e maledizione, la personificazione del sottoproletario «col senso quasi di non esistere che cova dentro di sé». Dal ’61 lo accompagna, maestro e padre, nella sua carriera: è un violento Edipo, cannibale in Porcile, Ciappelletto nel Decameron, Satana nei Racconti di Canterbury, dèmone nel Fiore delle mille e una notte.
Dopo la morte del poeta, che si ostinava a chiamare «uomosessuale», di lui dirà: «È stato un caso di purezza. Impossibile tradirlo». Il secondo tempo della sua carriera, speculare al primo ma in un Paese e un cinema mutati geneticamente e indifferenti, lo vive col fratello Sergio autore di film che sono racconti morali puri ed iper pasoliniani: Ostia, Casotto, Storie scellerate, Minestrone, mentre da regista Franco dirigerà Fiorello in Cartoni animati. Il cucciolo Citti, come lo definì lo scrittore, lavorò anche con altri (il Padrino III di Coppola e poi Bertolucci, Zurlini, Lizzani, Petri…), come fece teatro con Carmelo Bene (Salomé) e Quartucci, e anche tv (dal Manzoni a Garcia Lorca) ma rimarrà indelebile nel volto anticipatamente rugoso e spigoloso dell’anonimo Cataldi Vittorio, detto Accattone, morto su una croce d’asfalto.
Maria Pia Fusco per la Repubblica
L’attore è morto ieri nella capitale dopo una lunga malattia Aveva 80 anni. Recitò anche in “Mamma Roma” e nel “Decameron”. A teatro fu al fianco di Carmelo Bene
Addio Franco Cittti. L’attore simbolo del cinema di Pasolini, malato da tempo, si è spento ieri pomeriggio nella sua casa di Fiumicino. Era nato a Roma il 23 aprile del 1935. L’esordio con il personaggio del sottoproletario Cataldi Vittorio, Accattone, nel1961 fu una rivelazione folgorante, un’adesione perfetta tra l’interprete e il mondo poetico del regista. «Franco e Accattone si assomigliano come due gocce d’acqua, lui è Accattone», diceva Pasolini. E non a caso l’anno seguente interpreta se stesso nel documentario di Heutsch e Rondi Ragazzi di vita.
Citti diventa una delle figure essenziali dell’universo pasoliniano, è Edipo in Edipo Re, un cannibale in Porcile, Satana in I racconti di Canterbury, ser Ciappellettto in Il Decameron, un demone in Il fiore delle mille e una notte e nell’indimenticabile Mamma Roma riesce ad armonizzare la sua impetuosa, drammatica, feroce verità con la classe consumata della grande Anna Magnani. È grazie al fratello Sergio, più grande di lui di un paio d’anni (scomparso nel 2005), che avviene l’incontro in pizzeria con Pasolini. Sergio, muratore di borgata, lo aveva aiutato come consulente linguistico per Ragazzi di vita. «Frà, te presento ‘no scrittore, n’amico mio». Così, con la scanzonata sfrontatezza del romano, raccontava l’attore. Non sapeva chi fosse Pasolini, anzi, «all’inizio non mi pareva fosse tanto intelligente, mi pareva anche un po’ analfabeta, faceva il maestro elementare a Ponte Mammolo. Io ero macchiato di calce, avevo lavorato con mio padre, ma lui manco se ne accorgeva, io raccontavo la giornata e lui prendeva appunti».
L’amicizia di Pier Paolo e Sergio, si allargò a Franco Citti. Passavano tanto tempo insieme. «Ho capito dopo perché prendeva appunti,stava volentieri con noi in borgata,voleva conoscerci, entrare nelle nostre teste per raccontarci con onestà e con verità. L’ho capito vedendo Accattone. Era la mia prima esperienza, ma non era difficile, era la zona, stavo con gli amici che vedevo tutti i giorni».
Intelligente, curioso e determinato a cambiare il suo destino, senza mai spezzare il legame con Pasolini, è riuscito comunque a costruire una carriera di attore di una quarantina di titoli, chiamato tra gli altri da Fellini per Roma, da Bertolucci per La luna, oltre che da Lizzani, Zurlini, Petri,
Ferreri, perfino da Coppola per Il padrino, un’avventura nel cinema ricco dei dollari su cui Pasolini scherzò a lungo. «Divertiti, ma stai attento a non perdere la lingua e la borgata,mi diceva. Ma sapeva bene che non c’era pericolo». Importanti i ruoli con suo fratello Sergio che debuttò nella regia con Ostia, nel 1971, poi con l’intervento della scrittura di Vincenzo Cerami, Casotto, Il minestrone, I magi randagi. Nel tempo i personaggi, pur sempre mantenendo la spudoratezza ribelle e beffarda, acquistano una sorta di malinconica amarezza. Il teatro è entrato nella sua vita grazie a Carmelo Bene,che ne ha esaltato le doti istrioniche.
L’ultima apparizione, prima che lo colpisse un ictus, è stata nel 1999 in E insieme vivremo tutte le stagioni di Gianni Minello. Ma l’anno precedente aveva voluto provare anche lui “il potere della regia”, come diceva, e, con lacollaboraziione del fratello Sergio, diresse se stesso e Fiorello in Cartoni animati, una storia surreale con cui evocava la poetica pasoliniana.
A dare la notizia della morte di Citti, che lascia tre figli, è stato Ninetto Davoli, l’amico di sempre: «Abbiamo condiviso laparte più importante della nostra vita, l’amicizia con Pier Paolo, il suo cinema, la sua poesia. Non è soltanto un amico che perdo, è una parte del mio mondo, di quel mondo che piano piano sta scomparendo», ha detto Davoli. E il mondo di Citti è lo stesso di cui Claudio Caligari ha raccontato la fine con tanta lucida verità in Non essere cattivo. L’addio a Franco Citti è l’addio alle borgate, a quell’umanità capace di conservare innocenza e regole anche nei comportamenti tutt’altro che onesti.
Alessandra Levantesi Kezich per La Stampa
Malato da tempo Franco Citti se ne è andato, all’età di 80 anni; ne ha dato notizia Ninetto Davoli, l’unico che ormai resta del gruppo di ex «ragazzi di vita» romani, fedeli amici di Pier Paolo Pasolini e ispiratori della sua vena (una delle tante del poliedrico artista) di poeta di borgata. «La morte di Franco è un dolore enorme - ha detto Davoli - abbiamo condiviso gran parte dei nostri film, ma anche tanta parte dell’esistenza».
Franco era nato nell’aprile del 1935 a Fiumicino, che allora era una baraccopoli, una zona degradata abitata da protettori e ladruncoli. Lui si guadagnava il pane facendo il muratore, ma quell’ambiente di piccola mala, di ubriaconi, di prostitute era stata la sua scuola di vita; e quando una sera in pizzeria il fratello Sergio lo aveva presentato a Pasolini, che allora insegnava in una scuola a Ponte Mammolo, lo scrittore gli aveva subito letto nel viso e nel cuore quelle esperienze, quel mondo.
Il giovane imbianchino, con ancora indosso i vestiti di lavoro e l’aria schietta e riservata, rispecchiava un’immagine di popolo arcaica e antropologica congeniale alla sua visione poetica. Niente psicologismi piccolo borghesi, niente folklore facile: una romanità austera, antica.
Correva il 1961, quell’anno Pier Paolo Pasolini decise di passare alla regia e scelse Franco come protagonista della sua opera prima Accattone. Film destinato a passare alla storia per il modo brechtiano con cui dava forma e si rapportava al mondo dei diseredati narrato: ma era Franco, nel ruolo di un mezzo ruffiano di periferia che per amore della sua puttana si fa ladro e finisce morto, a portare sullo schermo la fisicità, la naturalezza e il calore umano necessari a creare partecipazione ed empatia nello spettatore.
Con Pasolini Citti ha fatto altre pellicole: da Porcile a I racconti di Canterbury, da Decamerone a I
l fiore di Mille e una notte, ma ha lavorato anche con altri cineasti, soprattutto con il fratello Sergio che di Pasolini è stato una specie di figlio ideale. Film come Ostia, favola nera di borgata; Casotto - accanto a Proietti che di lui ha ricordi di gran divertimento, gioco e amicizia; Storie scellerate, Minestrone scritto da Vincenzo Cerami, sono profondamente intrisi della poetica pasoliniana e di nuovo Franco se ne è dimostrato l’interprete perfetto.
Gli è capitato anche di fare teatro - d’avanguardia, off - l’ha voluto per Salomé un visionario che rispondeva al nome di Carmelo Bene. Ma in fondo è rimasto sempre Vittorio Cataldi, alias Accattone. Nel 1988 con l’aiuto di Sergio si è cimentato per la prima e unica volta nella regia: il film si intitola Cartoni animati, Citti vi recita, con Fiorello, un ruolo che è tanto simile a quello.
Malcom Pagani per il Fatto Quotidiano
Franco era stato in riformatorio, Franco odiava la madre, Franco era nato nel 1935, ad aprile. Franco faceva l’attore, recitava da ultimo testimone di un’epoca, portava le rughe di chi dalla borgata al cielo non si era risparmiato. Ora che i piani alti lo reclamano e la cronaca dice che il signor Citti: “Signore no, Citti sempre” muore a Roma a ottant’anni viene in mente quel che di lui, ma anche di sé, disse Carmelo Bene in un’antica puntata del Costanzo Show: “Si può essere soltanto dei capolavori mancati”. Nella vita di Franco Citti c’era stato posto per quelli veri, confusi tra investiture, illusioni, discese, salite, lutti e gioie. Sempre con le tasche vuote: “Perché i soldi – scrisse in Vita di un ragazzo di vita, la sua autobiografia – non li avevo da ragazzo e non li ho neanche adesso”.
Pasolini, l’incontro artistico di un’esistenza in cui i film erano stati quasi 60 e i registi a cui donarsi, tra un ruolo di protagonista e una comparsata, nomi come Petri, Fellini, Bertolucci e Coppola, lo aveva conosciuto per caso: “Scendevo tutto sporco dal tranvetto della Casilina dopo una giornata in cantiere e mi rodeva anche un po’ il culo”. Pasolini parlava “fitto fitto” con suo fratello Sergio e a Franco, che presto avrà il ruolo di Vittorio in Accattone, era di cattivo umore: “A me sinceramente di conoscerlo non mi fregava proprio niente”. Come si sa, pur senza pressioni: “Vabbé, a Pà, quando lo faremo ‘sto film lo faremo” andò diversamente e per Franco Citti: “Ho solo la quinta elementare”, arrivò il cinema. Prima di Pasolini. Dopo Pasolini. Sempre nel segno di Pasolini. Ma c’era stato un prima e c’era stato un dopo e il dopo restituiva solo memorie sgranate della grande avventura. In alcune immagini degli anni ’70, Franco è giovane. Passeggia con la camicia verde fuori dai pantaloni e i capelli lunghi, non ancora bianchi, sul ponte di Castel Sant’Angelo. Lo intervistano. Lui racconta genesi e ragioni del suo personaggio più famoso. Accattone – suggeriscono – è una metafora. Franco risponde: “Si veniva ar centro perché era l’unico modo di trova’ un pezzo di pane. I ricchi lo buttavano per terra e noi lo raccattavamo”. Al punto d’origine, disilluso, ferito, arrabbiato, indignato, nei panni dell’investigatore persino per raccontare che a novembre del ’75, a Ostia, l’uomo che lo fece esordire, Pier Paolo Pasolini, non fu ucciso soltanto da Pelosi, Citti era tornato.
Aveva affrontato con fatica sempre maggiore, nella malattia, le ombre dell’Idroscalo. Lo aveva fatto con il fratello Sergio. Guardandolo dal letto, immobile, parlare in sedia a rotelle con Guido Calvi nel documentario che Mario Martone girò nella speranza che le indagini prendessero nuovo slancio. Nel luogo in cui Pasolini venne ammazzato, “un chilometro quadrato di strage” nella definizione di Franco Citti, erano successe cose tremende e incompatibili con la dinamica e l’inatteso epilogo in cui rimase intrappolata la sola Rana, il soprannome di Pelosi. Si era impegnato per urlare in ogni modo che dietro i colpi da mattatoio, nel fango di un porcile filologicamente legato a quello declamato da Ugo Tognazzi nell’omonimo film pasoliniano: “E gli uomini non avranno più problemi di coscienza”, c’erano almeno tre individui. Fascisti, forse. Forse altro, in una trama a cui tra un depistaggio e una prova smarrita, i decenni davano sempre meno occasioni di trovare finali alternativi. Proprio come la vittima: “Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari” i Citti sapevano ma non avevano le prove.
Sergio, tre mesi prima di morire, mostrò un video fatto la mattina dopo il massacro. Parlava un pescatore. Diceva che a picchiare erano stati in tanti. In quella casa, a Fiumicino, nell’oscurità di un’impotenza anche fisica, erano rimasti solo in due. Il vecchio Franco, l’uomo che chiamava baby il suo whisky e discutendo dell’identità e delle inclinazioni di Pasolini con Paolo Conti si ubriacava di neologismi prima di Checco Zalone: “Adesso il vostro mondo mi sembra pieno di uominisessuali” già non c’era più. Era assente. Senza chiedere pretendere, elemosinare. Il silenzio come sberleffo. L’anatema di Carmelo Bene su chi apparentemente aveva vinto, come omaggio postumo: “Tu sei accattone, Franco? No, accattoni sono loro e non lo sanno. Sono assassini dilettanti, assassini scorreggioni”.
Silvana Silvestri per il manifesto
L’ultima volta che abbiamo visto Franco Citti è stato qualche anno fa durante un incontro molto speciale voluto dal fratello Sergio per informare la stampa delle prove che avrebbero cambiato il corso delle indagini sull’assassinio di Pasolini. Loro sapevano. Franco Citti seguiva i discorsi, ascoltava le domande e gli brillavano gli occhi ai tanti apprezzamenti che venivano fatti al suo lavoro, non senza lampi di ironia, ma non poteva parlare, colpito da un ictus. Arriva adesso la notizia divulgata da Ninetto Davoli della sua scomparsa avvenuta nella sua abitazione all’età di ottanta anni, malato da tempo, anche se neanche un mese fa aveva partecipato a una partita di calcio nell’ambito delle celebrazioni per il quarantennale della morte dello scrittore.
Erano stati loro a far scoprire a Pasolini il calcio di strada, la libertà di togliersi la cravatta da professorino, diceva. Ed era stato Pasolini a «scoprirlo» negli anni cinquanta, quando ancora scriveva le poesie in friulano e iniziava a pensare a Ragazzi di vita. Glielo presentò il fratello Sergio («annamose a magnà na pizza») lui tutto sporco di calce, racconta, perché faceva il muratore con il padre. Avrebbe rappresentato la visione concentrata di un mondo, era l’accattone, il diavolo, la preda del destino tragico (dalle pieghe del suo volto e del suo animo fiorisce un Edipo re che non si dimentica), una presenza su cui il poeta poteva a lungo immaginare, elaborare concetti e immaginare storie, a dispetto della sua semplicità. Da una parte l’angelico Ninetto e dall’altra l’oscuro Franco, da difendere dal giudizio dei borghesi seduti di fronte alla tv, come raccontava Pasolini a Carlo Di Carlo: «per loro è facile condannare chi perde ore e ore del suo giorno e della sua notte a combattere contro la dolce violenza della tentazione».
Quando Pasolini esordì nel cinema divenne il protagonista di Accattone. «Lui e Accattone sono la stessa persona» diceva Pasolini e sarebbero stati interessanti i commenti di Franco nel sentirlo parlare di estetica di morte, lo definiva «sto cavolo di accattone», ma anche «un bel film sincero, girato con tutti gli amici», però poi meditava sul fatto che avrebbe fatto meglio a fare il muratore, troppa gente falsa nel mondo del cinema.
Da quel film in poi rappresentò nel nostro cinema il volto del sottoproletario di tutte le epoche, senza bisogno di recitare ma, si raccomandava il regista, bastava che rimanesse se stesso. Diventò Carmine che torna a sfruttare Mamma Roma, il cannibale di Porcile (1969), Ciappelletto de Il Decameron (1971), un diavolo dei Racconti di Canterbury (1972), un altro demone ma orientale ne Il Fiore delle Mille e una notte (1974).
Come succedeva nel cinema del neorealismo, aveva ricevuto il marchio del suo regista. Pasolini, diceva, non gradiva che accettasse ruoli in Francia (a parte Marcel Carné di Dietro la facciata del 1963) o peggio ancora negli Usa e guai a imparare l’inglese che avrebbe potuto corromperlo (anche se poi partecipò al Padrino nel 1972 e nel 1990)). Invece la sua presenza nel cinema italiano è stata piuttosto intensa, inquieto e strafottente personaggio nei film del fratello Sergio che lo riportavano alle location e frequentazioni delle sue origini: Ostia, Storie scellerate, Casotto, Il Minestrone, Magi randagi, e Cartoni animati a cui teneva molto. In teatro nella Salomé di Carmelo Bene (nel ’63) in Requiescant di Lizzani (’67) Seduto alla sua destra di Zurlini (1968), Colpito da improvviso benessere di Giraldi (1976), Todo modo di Elio Petri (1976), La Luna di Bertolucci (1979), Il segreto di Maselli (1990).
In «Vita di un ragazzo di vita» scritto con Claudio Valentini parla di Pasolini come di «un caso di purezza, impossibile tradirlo». Ma lui, dice, si è autotradito, ha parlato troppo, dava troppa amicizia («Quanto gli piaceva parlare, non sarebbe arrivato vivo») e sottolineava: «Abbiamo fatto le indagini io e mio fratello Sergio, il regista, nelle borgate. È escluso che sia stato Pelosi. Nessuno parlò perché venivano minacciati di morte».