la Repubblica, 15 gennaio 2016
Una donna alla guida di Taiwan? Potrebbe succedere domani. Ecco chi è Tsai Ing-wen, la favorita alle presidenziali, che da anni lotta contro Pechino
I giardini immensi e perfetti del Memoriale di Chiang Kai-shek sono deserti. Soltanto un gruppo di anziani, davanti alla porta della Rettitudine, esegue gli esercizi mattutini del Tai Chi, incurante di una pioggia leggera. Nessun visitatore chiede oggi di onorare la memoria del Generalissimo, fuggito qui nel 1949 dopo aver perso la guerra civile contro Mao Zedong. Nemmeno a Pechino le colonne di cinesi che ogni giorno sfilano davanti al Mausoleo del Grande Timoniere sono spontanee. L’indifferenza che seppellisce l’eroe rivale di Taiwan non è però alimentata, come in Cina, dall’oblio inevitabile della storia: il simbolo dell’indipendenza è stato trasformato nell’icona paradossale di quella «riunificazione» che l’«isola ribelle» sembra ora decisa ad allontanare disperatamente un’altra volta.
A Taipei ignorare Chiang Kai-shek significa oggi opporsi a suoi eredi del Kuomintang (KMT), il partito al potere da quasi 67 anni, artefice del riavvicinamento alla «madrepatria»: e l’ex Formosa, con il voto cruciale di domani, si prepara ad una svolta destinata a rompere gli equilibri sempre più fragili dell’Asia. Per la prima volta una donna è a un passo dal diventare presidente e per la prima volta il Partito democratico progressista (DPP) sembra prossimo a conquistare anche la maggioranza in Parlamento.
Gli ultimi sondaggi sono concordi: i filo-cinesi del presidente Ma Ying-jeou, all’addio dopo otto anni, sono accreditati del 20-25 per cento dei consensi, rispetto al 40-45 dell’opposizione indipendentista. Soltanto tre elettori su cento si sentono cinesi: sessanta si dichiarano taiwanesi. Per la ventennale democrazia dell’isola si profila così un altro debutto: la prima alternanza al governo dopo il doppio mandato del democratico Chen Shui-bian, finito nel 2008 e seguito dall’arresto per corruzione. Nella capitale l’aria della «storica svolta» è evidente.
Pochi anziani nel quartiere di Wanhua seguono in silenzio il corteo di Eric Chu, leader del KMT, candidato in extremis alla successione di Ma Ying-jeou e accusato di mazzette per estromettere dalla corsa la vice del “Legislative Yuan”, Hung Hsiu-chu. Una folla fragorosa di giovani, davanti al Memoriale della Pace, acclama invece la minuta Tsai Ing-wen, presidente del DPP, avvocatessa di formazione anglosassone, già lanciata come la «Hillary Clinton di Taipei» e favorita alle presidenziali.
Sarà un caso, ma anche il secondo evento di queste ore suggerisce che Taiwan vuole festeggiare all’americana il ri-allontanamento dalla Cina e la rinnovata fedeltà al patto di difesa che la lega agli Usa: oggi e domani è in cartellone il concerto dell’orchestra sinfonica di Chicago, diretta da Riccardo Muti. «Per Pechino – dice Chen Yu-fang, direttore del Centro di studi elettorali di Taipei – il problema non è la sconfitta del Kuomintang: è la fine della tregua nello Stretto di Taiwan, la porta sbattuta in faccia alla Cina e quella riaperta a Giappone e Stati Uniti».
La vittoria annunciata di Tsai Ing-wen, che in autunno è stata ricevuta a Tokyo e che promette di volare presto alla Casa Bianca, minaccia di generare nel Pacifico l’effetto di una bomba. Nell’ultimo confronto elettorale televisivo, ignorando il tentativo del KMT di trascinare pure lei nel vortice di tangenti e inchieste, ha promesso di mantenere lo «status quo» nelle relazioni con la Cina: a poche ore dal voto, Pechino avverte però i taiwanesi che «spingere i rapporti con il continente al livello più basso dal 1949 avrà conseguenze disastrose».
Per Xi Jinping si profila il primo stop internazionale. A novembre il presidente cinese, a Singapore, ha fortemente voluto il primo vertice con un leader di Taiwan dopo 66 anni, basato sullo statuto del «Consenso del 1992», che riconosce il principio di «una sola Cina».
Non sono stati i missili sparati da Jiang Zemin, nel fallimentare tentativo di influenzare le presidenziali del 1996, ma il messaggio che Pechino vincola la propria amicizia alla prospettiva della riunificazione è risultato inequivocabile. Lo storico faccia a faccia con Ma Ying-jeou, seguito dall’annuncio- beffa che Washington venderà a Taipei due fregate lanciamissili, rischia domani di rivelarsi un boomerang. Il trionfo dei democratici anticipa infatti un sorprendente accerchia- mento regionale della Cina: proprio mentre la Corea del Nord della corsa atomica si rivela sfuggita al suo controllo, il Giappone si riarma grazie all’alleanza con gli Usa, il Sudest asiatico è sul piede di guerra per la contesa degli arcipelaghi nel Mar Cinese Meridionale, la Corea del Sud accetta di rinforzare le basi americane in chiave anti- Pyongyang, Hong Kong è scossa dalla repressione di Pechino e Myanmar spinge al potere la democratica Aung San Suu Kyi.
«Concludere che la vittoria del DPP a Taiwan sancirà l’isolamento della Cina e la nuova avanzata degli Usa in Asia – dice Huang Chun-Hsien, docente di politica internazionale all’università Chengchi di Taipei – è prematuro. Si può osservare però che la strategia della pazienza scelta da Pechino è fallita, con le minacce della sua esibita corsa alle armi: e che il radicamento della democrazia e della libertà a Taiwan coinvolge come minimo lo scottante dossier di Hong Kong».
Questo voto non è però solo un referendum politico tra Cina e Usa, una scelta culturale tra Oriente e Occidente, ennesimo revival della Guerra Fredda. Sulla culla globale del boom tecnologico degli anni Ottanta pesa anche lo spettro di una recessione senza precedenti. Nel 2015 la crescita reale è riuscita a stento a raggiungere l’1%, mentre Bloomberg prevede un 2016 con il segno meno e un dollaro taiwanese ai minimi dal 2009. «I prezzi delle case esplodono – dice il leader studentesco Lin Wei-ting – i salari crollano, i giovani sono disoccupati, invecchiamento e bassa natalità ingrossano il debito. Per la prima volta Taiwan non è più sinonimo di innovazione».
Sarà che ogni Paese cerca di scaricare all’estero la colpa dei fallimenti interni, ma anche a Taipei lo spettro della crisi finisce sul conto del Kuomintang e dunque del suo sponsor cinese, che vale un interscambio annuo da 170 miliardi di dollari. I sostenitori di Tsai Ing-wen alzano migliaia di salvadanai vuoti per suggerire che il KMT ha dissanguato l’isola, arricchendo i poteri forti e impoverendo la gente: importando, con 23 accordi in otto anni, la frenata che dopo trent’anni gela la crescita della Cina. «La vittoria dei democratici – dice Joseph Wu, segretario del partito d’opposizione – nasce nella primavera del 2014, quando la «rivolta dei girasoli» e l’occupazione del parlamento costrinsero Ma Ying-jeou a congelare il patto di libero scambio mascherato con Pechino».
I filo-cinesi di Eric Chu, radicati nel mondo degli affari, agitano invece in queste ore l’incubo opposto. «Export, turismo e investimenti – dice l’imprenditore Ringo Lee – scontano l’instabilità, non l’alleanza con la super-potenza che mantiene il tasso di crescita più alto del pianeta. Business e diplomazia delle vacanze non sono un ricatto, ma la vendetta della Cina non sarà certo compensata dalla riconoscenza degli Usa». Nel piatto di Taipei, come in quello in Hong Kong, finisce così non solo la scelta tra «cinesizzazione» e indipendenza, tra autoritarismo e democrazia, ma pure quella decisiva tra il capital-comunismo di Pechino e il capitalismo finanziario di Washington, alternativi ormai in tutta l’Asia. «Eleggere una presidente ostile all’assorbimento di Taiwan da parte della Cina – dice Gordon Sun, direttore del Centro di macroeconomia – può sembrare antistorico, ma lo spirito dominante nell’isola non è l’odio verso l’altra sponda dello Stretto, o il timore di diventare la “Crimea asiatica”: il problema è il tenore di vita e per non farlo crollare i taiwanesi pensano che sia necessario un cambiamento». Nessuno sa come, umiliando Pechino e i suoi lobbysti del KMT, la rinascita del «fenomeno-Taiwan» sarà realizzabile. I nostalgici della «madrepatria» azzardano addirittura che proprio il trionfo pilotato del DPP nel pieno della crisi, seguito da «un inevitabile disastro», accelererà «il passaggio naturale del ricongiungimento». Il rassegnato deserto pro-cinese del Memoriale di Chiang Kai-shek contro la folla filo-occidentale che già esulta sotto quello della Pace: a Taipei il palcoscenico per celebrare la prima sconfitta elettorale del modello che la Cina rappresenta, davanti al parlamento, è già montato. La realtà resta però più complicata delle apparenze e chiunque vinca le elezioni, per il mondo sarà un problema.