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 2016  gennaio 15 Venerdì calendario

Intervista a Martina Levato, l’acidificatrice che chiede una seconda possibilità: «Mi sono pentita e ho collaborato. Ora voglio crescere mio figlio»

Dice che non se l’aspettava. «A me 16 anni e a Magnani 9...?». Dice, ed è la sua visione: «In aula l’altro giorno mi è crollato il mondo addosso». Alexander? «Non voglio più essere identificata come coppia. La coppia dell’acido. Ora siamo io e mio figlio Achille. Mi interessa proteggere lui. Vorrei mi dessero la possibilità di crescerlo». Secondo piano del reparto femminile del carcere di San Vittore: la porta della cella di Martina Levato è addobbata con stelline colorate, dentro c’è un filo con appesa biancheria intima, un fornelletto e Cinzia, la nuova compagna di vita. «Mi ha capita subito», dice l’ex bocconiana. Capelli sciolti, trucco, pullover nero, jeans, scarpe da tennis. Dopo la condanna a14 anni più 16 per le aggressioni ai suoi ex – tre con l’acido solforico e un tentativo di evirazione – Levato parla per la prima volta dal carcere dove è detenuta dal 29 dicembre 2014.
Lo fa con Eleonora Cimbro, deputata del Pd (sono entrambe di Bollate). In un’ora di colloquio, niente lacrime, ma molti rimorsi. Ecco le domande della parlamentare e le risposte di Martina.
Perché le è crollato il mondo addosso?
«Per la disparità di trattamento. Io mi sono pentita, ho confessato, collaborato, ho ammesso le mie colpe ed è giusto che paghi. Ma ogni volta sembra sia solo io la responsabile di tutto quello che è successo. Che differenza c’è, allora, tra chi si pente e collabora e chi invece non lo fa?».
Che cosa farà ora?
«I miei avvocati (Alessandra Guarini e Daniele Barelli, ndr) si muoveranno per far capire all’opinione pubblica, anche andando in tv, che se una persona sbaglia e si pente e collabora merita almeno una seconda possibilità di vita».
In che senso?
«Mi rendo conto di quanto dolore ho provocato: alle vittime, alle loro famiglie, ai miei genitori. Ma perché durante la gravidanza mi hanno assicurato che sarei andata con mio figlio all’Icam (la struttura milanese per madri detenute e bambini, ndr) e poi invece dopo il parto (il 15 agosto 2015: Martina e Alex erano già stati condannati in primo grado a 14 anni per l’aggressione a Pietro Barbini) me lo hanno tolto? Vorrei avere una seconda possibilità di vita. Assieme a mio figlio. A che cosa servono sennò le comunità?».
Lei chiede la patria potestà sul bimbo avuto da Boettcher. Sicura, dopo le condanne che ha avuto, di poter dimostrare di essere una buona madre?
«Lo valuteranno i periti del tribunale (entro aprile). Quando mi hanno tolto il bambino non ho reagito, ero in ospedale, sotto anestesia. Poi ho realizzato, e ho ricordato le promesse che mi avevano fatto. Se non ero in grado di fare la madre perché non me lo hanno detto quando avevo il bambino in pancia?».
Lo vede una volta la settimana, e lo stesso fa Boettcher.
«A volte me lo portano che sta dormendo. Quando si sveglia non ho nemmeno il tempo di entrare in relazione con lui che è già finito il tempo. Così ti vive come un’estranea. La stessa cosa, credo, vale per suo papà. Penso che anche lui ha diritto a essere padre e a poterlo fare. Ma non voglio più che il mio nome sia associato alla “coppia”. Vorrei che si parlasse di me e di mio figlio. Che si chiama ancora – Achille Levato».
Quanti rimorsi ha?
«Tanti. Sto male per quello che ho fatto. Ci ho impiegato un anno per capire che ho sbagliato. Ho inflitto tanta sofferenza, ora voglio riabilitarmi con mio figlio».
La sua giornata in carcere?
«Sveglia, apro la palestra è l’incarico che mi hanno dato. Poi vado in biblioteca a studiare. La tentazione di lasciarsi andare è forte. Ma voglio laurearmi: mi mancano quattro esami. Alla Bocconi non posso farlo, il codice etico lo vieta. A me. Ad Alberto Stasi no... Dovrò trovare un’altra sede».
Che cosa avrebbe voluto fare nella vita?
«La donna in carriera. Studiavo per quello. Poi quando ho conosciuto Alexander ho pensato di diventare mamma e di fare una famiglia».
È passato un anno e mezzo dall’arresto. In mezzo ci sono stati il parto, i processi.
«All’inizio non mi rendevo conto di quello che accadeva intorno a me. Non avevo la percezione tra il dentro e il fuori. Non guardavo la tv: parlavano sempre di me come di un mostro. La coppia dell’acido, la ragazza dell’acido... Ora sto meglio, anche se l’angoscia per quello che ho fatto mi schiaccia. Insieme al peso di non potere avere mio figlio e di non sapere quale sarà il suo futuro».
Il suo come lo vede?
«Mi piacerebbe fare vedere quello che sono come persona. Nonostante quello che ho fatto. Non mi sottraggo a nessuna delle mie colpe, delle mie responsabilità. Ma facendo la mamma potrei mostrare una dimensione nuova alla quale, mi rendo conto, forse molti non credono».
Che cosa dicono i medici che la seguono?
«La psichiatra è stupita che sia riuscita a mantenere l’allattamento per così tanto tempo. Di solito con tensioni così forti lo perdi. Invece ancora oggi ogni quattro ore estraggo il latte con il tiralatte manuale. E il lunedì, quando mi portano Achille, consegno la scorta per la settimana».