la Repubblica, 15 gennaio 2016
Giuseppe Berta, storico dell’industria, ci spiega come cambierà il mercato dell’auto
L’industria dell’auto, così come l’abbiamo conosciuta, «ha raggiunto ormai il suo punto limite. Anche gli scandali di questi mesi raccontano che siamo alla vigilia di un profondo cambiamento». Giuseppe Berta, storico dell’industria e docente alla Bocconi, commenta così il coinvolgimento di nuovi produttori nelle accuse di frode.
Professor Berta, perché questi scandali avvengono oggi?
«Premetto che si tratta di verificare se le accuse sono fondate. Anche se vedo che in Francia hanno ammesso di avere livelli di emissioni di CO2 superiori ai limiti di legge. In generale si può dire che è al capolinea un modello».
In che senso?
«Nel senso che oltre certi limiti le emissioni non si possono abbattere e oltre certi livelli il mercato dell’auto tradizionale non può salire».
Quale evoluzione prevede?
«Penso che abbiano ragione coloro che ipotizzano un mercato in diminuzione. Un po’ perché le nuove generazioni hanno un rapporto più distaccato con l’automobile e un po’ perché dopo una lunga fase di stagnazione i giovani di oggi, quelli che chiamiamo Millennials, sono meno propensi a consumare, sono più formiche di noi, nati durante il boom economico e l’inflazione a due cifre. E certo i ragazzi di oggi, senza certezze e con un welfare precario, hanno difficoltà ad acquistare un bene costoso come l’automobile».
L’auto tradizionale sparirà?
«Non credo. Penso piuttosto che nei prossimi anni avremo un mercato molto segmentato in cui le nuove automobili vivranno accanto a quelle tradizionali».
Come saranno le nuove automobili?
«Saranno la plastica rappresentazione del concetto di mobile. Nel senso della mobilità che oggi associamo agli smartphone e domani assoceremo anche all’auto connessa».
Chi le costruirà?
«Credo che difficilmente ci riusciranno i costruttori tradizionali. Sarà inevitabile che la parte del leone la facciano aziende come Google o Apple. Non solo perché hanno sviluppato le conoscenze in questo settore ma anche perché hanno una capacità di investimento che i costruttori tradizionali non possiedono».
Che fine faranno i costruttori di oggi?
«Oggi vedo due strade. Quella imboccata da Toyota che da anni investe e scommette sull’ibrido e sulle propulsioni alternative. O, al contrario, quella di immaginare alleanze tra costruttori tradizionali e società della connettività. In ogni caso mi sembra che la partita si giocherà tutta in America e in Asia».
In Europa no?
«L’Europa è indietro. L’economia più forte, quella tedesca, è autoreferenziale, poco incline alle contaminazioni con l’esterno. L’Italia mi sembra anche più indietro, priva com’è di piattaforme utilizzabili per la connessione tra mobilità tradizionale e nuova connettività».
Lei non crede dunque a grandi fusioni tra i costruttori tradizionali?
«Io penso che abbia ragione Marchionne a denunciare lo spreco di capitale che l’industria dell’auto genera per il modo con cui è organizzata oggi. Ma il modo con cui si riuscirà ad ovviare a quello spreco è tutto da decidere. E temo che i costruttori europei siano in difficoltà».