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 2016  gennaio 15 Venerdì calendario

Il terrore dell’Europa, patria del diesel

Prima c’è stato il dieselgate di Volkswagen. Adesso tocca a Renault. Il film assomiglia sempre di più a un thriller. E il secondo tempo si preannuncia da brividi. A rischiare è soprattutto l’industria dell’auto europea, che esce martoriata da questi scandali nella sua dimensione di roccaforte del diesel, contro il bastione nordamericano tutto benzina e la nave corsara giapponese e sudcoreana che va a motore ibrido. È però in tutto il mondo che questo settore – nel dilemma fra il mercato e la regolazione e nel contrasto fra i diritti dei cittadini e la sostenibilità delle imprese – potrebbe entrare in un loop segnato dall’incremento dei costi industriali e dall’irrigidimento dei processi produttivi e manageriali.
Procediamo con ordine. Nello scontro fra blocchi manifatturieri contrapposti, l’Europa da vent’anni ha puntato con decisione sul diesel. È la nuova geo-economia, ai tempi della globalizzazione. Si tratta di una scelta di politica industriale precisa. «Il diesel – dice Giuseppe Giulio Calabrese, editor in chief dell’International Journal of Automotive Technology and Management – è stato favorito a livello comunitario, perché Bruxelles ha puntato sulla leva della riduzione della CO2 per modificare l’impatto ambientale delle sue industrie. E i motori a gasolio sono quelli che garantiscono, in questo, i migliori risultati». Fa specie pensare che, dopo il dieselgate dei motori Volkswagen, di nuovo sia proprio un motore Renault con questa alimentazione a essere al centro dell’attenzione. Soprattutto sovrapponendo questi due episodi – il primo conclamato e di massa, il secondo ancora tutto da accertare e comprendere – alle statistiche complessive della produzione europea: se nel 2000, secondo l’ufficio studi di Ihs Automotive, il 33% delle macchine realizzate in Europea montava un motore diesel, questa quota è aumentata già nel 2002 al 39%, per poi fare il salto definito nel 2007 al 48% e, da allora, restare stabile a questi livelli.
Un’auto su due fabbricata qui va a gasolio. La forza specializzativa espressa (almeno finora) dal Vecchio Continente in questo segmento tecno-produttivo si percepisce nel confronto con l’analogo dato del Nord America, dove soltanto il 6% di macchine è diesel (era il 3% quindici anni fa), e del blocco Giappone-Sud Corea, dove ci si attesta a un comunque contenuto 15 per cento. Dunque, in questo thriller bisognerà capire che cosa succederà nella trama, imprevedibile, del conflitto fra grandi aree manifatturiere che competono a livello globale. Assume una cifra simbolica rilevante la natura semipubblica di Volkswagen, in cui il Land della Bassa Sassonia è il secondo azionista con il 20% del capitale, e di Renault, in cui lo Stato francese è il primo socio con il 19,7 per cento. Siamo, dunque, nel cuore di un modello – quello europeo – in cui la mano pubblica ha una centralità rilevante. Soltanto che, adesso, questa mano pubblica sembra avere le unghie lacerate, il palmo viola e le dita contratte dal male. «Non sono certo fattori positivi – dice Pierluigi Bellini, direttore di Ihs Automotive – il danno reputazionale è indubbio e un impatto negativo non mancherà. Non si avverte però un rischio di disarticolazione interna del sistema industriale europeo: un poco perché il consumatore europeo medio è più cinico rispetto a quello americano, che peraltro opera in un contesto in cui le class action funzionano davvero. Da noi non è così. Diverso il discorso negli equilibri internazionali fra grandi aree manifatturiere: per usare un eufemismo, di certo Volkswagen negli Stati Uniti ne risentirà».
In ogni caso, una cosa è certa: l’incardinamento sul diesel dell’industria europea, per quanto ancora frammentata in diversi sottosistemi produttivi nazionali, ha funzionato bene per vent’anni e, adesso, appare indebolito. «A fronte di una scelta di policy nitida ed efficace – riflette a questo proposito Calabrese, che è anche economista al Cnr-Ircres – l’Europa negli stessi anni non è riuscita a sviluppare un meccanismo comunitario di controlli autorevole e credibile, indipendente rispetto ai produttori e in grado di prevenire qualunque loro scivolone. Si tratta del classico caso in cui servono più regolazione e più Europa. Più Europa sana, naturalmente». Anche perché l’ampliarsi dello scandalo dalla Germania alla Francia sembrerebbe profilare una patologia in cui nulla succede per caso, ma in cui i manager assumono rischi calcolati. «Dunque – afferma Francesco Zirpoli, direttore scientifico del Cami (Center for Automotive and Mobility Innovation) dell’Università di Ca’ Foscari – sarà essenziale costruire in Europa un sistema di controlli non collusivi ma indipendenti. Partendo da un semplice assunto: concepire e fabbricare un motore diesel ad alta efficienza e meno inquinante costa di più. Dunque, nella dialettica fra la regolazione e il mercato, i diritti dei consumatori e dei cittadini e i conti delle imprese, qualcosa non potrà non cambiare».
Quel qualcosa appare la vera incognita per l’epilogo di questo thriller. In Europa. Ma non solo. L’automotive industry è da anni potentemente sotto stress. La globalizzazione ha provocato un incrudimento della concorrenza che ha alzato l’asticella per ogni costruttore. Tutti hanno ancora nelle orecchie le Confessions of a Capital Junkie pronunciate di fronte agli analisti americani il 29 aprile dell’anno scorso da Marchionne: il Capex e le spese in R&S delle principali case automobilistiche sono passati dai 76 miliardi di euro del 2010 ai 122 miliardi di euro del 2014, anno in cui gli investimenti consolidati per lo sviluppo dei prodotti sono ammontati a 100 miliardi di euro (2 miliardi di euro a settimana). Somme di denaro enormi. «Il tema della ulteriore lievitazione dei costi – sottolinea Gabriele Caragnano, socio responsabile di PWC delle attività industriali in Italia – non va negato. Di certo, la miccia accesa potrebbe provocare un incendio. Accelerando la mutazione genetica del settore. Stanno cambiando le fabbriche. Sta cambiando il consumatore. Oggi la macchina è sempre più un veicolo che contiene servizi. Tutti sono in attesa di capire se qualcuno della Silicon Valley, Apple ma non solo, farà o no ingresso nell’automotive. E, di certo, questi scandali caricheranno di maggiori costi i carmakers tradizionali. In queste cose, sai come inizi, ma non sai dove vai a parare».
Il finale del film, dunque, sarà a sorpresa.