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 2016  gennaio 14 Giovedì calendario

Il discorso di Obama e le riforme che mancano all’appello

Che ci voglia una riforma strutturale americana? L’ipotesi circola da qualche tempo negli ambienti economici americani. E se ne parlava di nuovo ieri, perché c’è un gap nell’analisi del giorno dopo del discorso di Barack Obama, e riguarda l’economia.
Il presidente ha rassicurato gli americani: «Le cose vanno benissimo, siamo l’unica economia davvero stabile al mondo e in crescita, abbiamo creato milioni di posti di lavoro dimezzato il tasso di disoccupazione e ridotto del 75% il disavanzo pubblico». Vero. Poi Obama ha preso atto che nonostante i grandi progressi molti americani restano insoddisfatti di come vanno le cose sul piano economico. Vero anche questo: «La ragione – ha spiegato – dobbiamo cercarla in un trend di lungo periodo che va ben al di là della recessione del 2009, e che continuerà perché il progresso non si può fermare. Un trend che ha la sua radice nella globalizzazione, nell’innovazione nella robotizzazione dei sistemi produttivi…davanti a questo non possiamo fermarci per la paura del domani, ma dobbiamo affrontare le nuove sfide, che vinceremo come abbiamo sempre fatto».
Il “gap” in realtà è doppio. Obama, guardando alle elezioni di novembre, voleva attirare le simpatie dell’opinione pubblica verso il partito democratico e l’altra notte ha chiesto il voto per poter cambiare le cose in Parlamento. Ma ha offerto come giustificazione solo una fotografia invece di un percorso. Una fotografia che gli americani conoscono bene. Il gap dunque è doppio. Politico, perché alla fine non ha davvero detto nulla di nuovo e sappiamo che cercare di rassicurare qualcuno che sta male attraverso una spiegazione razionale non necessariamente funziona. Ma è anche tecnico, o di visione, è mancata la terza gamba su cui puntare, con un messaggio nuovo per uscire da questo stato di insoddisfazione, di preoccupazione, di scarsa fiducia nel futuro. Non basta chiedere di aumentare il salario minimo o incoraggiare l’assunzione dei giovani – come ha fatto l’altra sera – senza aggiungere qualcosa di più. Anche perché in America il dibattito su questo malessere «secolare» come lo definisce Larry Summers, il grande economista di Harvard che fu anche segretario al Tesoro di Bill Clinton e consigliere di Obama è molto avanzato.
Da una parte abbiamo infatti proprio la scuola di Summers, che propone lo sviluppo di un capitalismo «inclusivo», con nuove forme di partecipazione al lavoro e agli utili che le aziende riescono ad accumulare. Come vediamo, in effetti, dalla maggioranza dei risultati di bilancio, la Apple da sola ad esempio ha fatto profitti record sul piano storico con oltre 50 miliardi di utili in un anno. Occorre anche ridurre la differenza, crescente, del reddito fra ricchi e classe media, un trend che conosciamo bene, i ricchi che diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
E qui arriviamo alla tesi per le “riforme strutturali”. Non necessariamente nel modo in cui le intendiamo in Italia – eliminazione delle rigidità sul lavoro o abbattimento del disavanzo o del debito pubblico o della burocrazia o di regole del secolo scorso che ancora ci paralizzano. Ma su altri aspetti dell’economia americana che oggi presentano problemi appunto “strutturali”, problemi che portano a sprechi di risorse, a inefficienze e a forti cadute di produttività. Mi è capitato qualche settimana fa a Washington, al Peterson Institute for International Economics a un convegno del Council for United States and Italy di ascoltare con passione gli argomenti di Adam Posen, il capo del Piie a favore delle riforme strutturali in America. Quali? Una riforma del sistema sanitario a tutto campo. Obama ha fatto enormi progressi con la sua e per la prima volta è riuscito ad abbattere il costo delle assicurazioni, ma il problema più grave è dato dalla percentuale del Pil: «Oggi abbiamo uno spreco del 10% del Pil in spese sanitarie inutili, il nostro sistema costa il 18% del Pil all’anno, in Europa è mediamente dell’8% – mi ha detto Posen ieri – il Presidente avrebbe dovuto dare delle indicazioni più specifiche nel suo discorso, parlare di altri ordini esecutivi, non l’ha fatto, questo è stato un limite». Posen indica altri elementi parte delle “rigidità” strutturali americane: un sistema fiscale che andrebbe riformato che incoraggia le aziende a trasferire i quartieri generali all’estero, una protezione della proprietà intellettuale che diventa una barriera all’ingresso e scoraggia l’innovazione, una tassa sull’energia, una riforma del sistema educativo fin dalle elementari eliminando il ruolo delle autorità centrali statali, una spinta per gli investimenti infrastrutturali: «Sono sei punti importanti – dice Posen – sono un avvio per cambiare alla radice alcune delle cose che davvero non funzionano nel nostro Paese».