La Stampa, 14 gennaio 2016
Il kamikaze della strage di Istanbul era un siriano che aveva chiesto asilo politico. Si segue la pista caucasica
C’è una pista russa dietro l’attacco dell’Isis di martedì a Istanbul. Non arriva a Putin, come hanno alluso i media popolari turchi. Ma porta alla rete di caucasici islamisti di nazionalità russa, soprattutto daghestani e ceceni, che formano una delle più micidiali colonne dello Stato islamico e si sono infiltrati in Turchia.
Le indagini di ieri sull’attentato kamikaze a Sultanahmet che ha causato dieci vittime, tutte tedesche, hanno finora due punti fermi. Il kamikaze Nabil Fadli, un siriano nato nel 1988 in Arabia Saudita, era arrivato dalla Siria il 5 gennaio «come un normale migrante», e aveva chiesto asilo. È stato identificato dalle impronte digitali prese al confine, ma proprio perché richiedente asilo «non era sotto controllo».
La terrorista misteriosa
L’altro punto fermo è la rete caucasica. Dei 68 arresti fatti ieri, i tre che contano sono quelli Antalya, la località turistica, dove il 15 e 16 novembre scorsi si è tenuto il summit del G20. I tre cittadini russi, probabilmente daghestani, erano tenuti sotto sorveglianza già da allora. Contro di loro sarebbero già pronti, secondo il quotidiano «Haberturk», capi d’accusa «per terrorismo».
I tre si sono rifiutati di rivolgersi ai servizi consolari russi. Una loro estradizione li metterebbe in condizioni ancora peggiori. In alcuni casi i servizi russi hanno eliminato combattenti caucasici in Turchia, come Berg-Haj Musayev, legato all’emiro ceceno Doku Umarov, ucciso il 21 settembre a Istanbul. In altri casi, come per la 19enne studentessa Varvara Karaulova che aveva cercato di raggiungere l’Isis in Siria, la Turchia ha concesso l’estradizione a Mosca.
L’Emiro rosso
Contro i tre arrestati ci sarebbero prove da intercettazioni telefoniche e da materiale digitale sequestrato nel loro appartamento di Antalya. Sono sotto torchio, anche perché le forze di sicurezza stanno dando la caccia a una potenziale, kamikaze daghestana, Patimat Abdulgamidova.
Alla caccia alla Abdulgamidova, una 27enne del villaggio di Levashi, Daghestan, sarebbe anche legata la misteriosa esplosione del 23 dicembre all’aeroporto Sabiha Gokchen di Istanbul, che ha fatto una vittima e una ferita grave fra le impiegate dello scalo. Le autorità turche hanno minimizzato, e parlato di «incidente».
A tessere le file caucasiche, dal Califfato, è Omar al Shishani, cioè il ceceno, vero nome Tarkhan Batirashvili, nato in Georgia da padre cristiano e madre cecena musulmana. L’Emiro rosso, per il colore di barba e capelli, è uno dei migliori comandanti a disposizione del leader dell’Isis Abu Bakr al Baghdadi. Sottufficiale nell’esercito georgiano, Al Shishani si è distinto contro i russi nella guerra del 2008, per poi imboccare una carriera jihadista che dalla Cecenia lo ha portato all’Isis in Siria.
Dalla Siria Al Shishani continua a infiltrare uomini in Turchia. I servizi turchi, il 17 dicembre e il 4 gennaio, avevano lanciato un allarme su «diversi jihadisti entrati dalla Siria per condurre attacchi contro obiettivi turistici e rappresentanze diplomatiche dei Paesi Nato». Gli altri 65 arresti di ieri sono stati fatti anche in due località vicino alla frontiera con la Siria; Kilis e Sanliurfa.
La pista «russa» ha però scatenato le speculazioni. Il quotidiano filo-governativo «Star», vicino all’Akp del presidente Erdogan, ha accusato Putin, ritratto in prima pagina con le mani sporche di sangue. E il premier Ahmet Davutoglu ha alluso ad «attori segreti» dietro l’attacco, che avrebbero usato l’Isis, come un «sotto-appaltatore». Secondo gli analisti politici si riferiva alla Russia e al presidente siriano Bashar al Assad.
Berlino prudente
Molto più prudente Berlino. Il ministro dell’Interno Thomas De Maizière ha detto ieri da Istanbul che «non vi sono indizi» che indichino nel gruppo di tedeschi l’obiettivo specifico dell’attentato. E ha rassicurato: «Non vi sono ragioni per non effettuare visite in Turchia».