la Repubblica, 14 gennaio 2016
I servizi segreti italiani si raccontano con ironia in un libro
Quando dici “spia” pensi subito a James Bond, lo 007 con licenza di uccidere al servizio di Sua Maestà, e ai suoi tanti avatar sul grande schermo. Alla lotta fra il tormentato Smiley e l’inafferrabile capo del KGB Karla nei romanzi di John Le Carré. All’inquieta, schizzata e irresistibile Carrie Mathison di “Homeland”. Ma questo è solo uno degli aspetti, il più appariscente, del mestiere della spia. Molti dettagli interessanti su ciò che le spie sono e fanno, e su come ce la raccontiamo, si possono apprendere da “I colori dell’intelligence”, vasta e colorata pubblicazione curata, di recente, dallo stesso editore di “Gnosis”, la rivista nazionale dell’intelligence. Una fonte interna, dunque. È un volume che consta di agili saggi e di un notevole corredo iconografico, affidato a illustri disegnatori (la copertina, ironica, è di Altan) che attraversa il rapporto fra intelligence e umorismo, illustrazione, fumetti, cinema, letteratura e storia. Una lettura sicuramente piacevole, che spazia dai diari della Contessa di Castiglione, giovanissima agente segreta infiltrata da Cavour nel letto di Napoleone III e benemerita dell’unità nazionale, ai Tre giorni del condor, passando per Totò e Peppino divisi a Berlino, in una sapiente alternanza fra serio e faceto che solca epoche e generi con un’apprezzabile vena di autoironia. Apprendiamo, così, che quello della spia è un mestiere antichissimo. Può vantare, addirittura, ascendenze bibliche: si narra nel Pentateuco che Mosè infiltrò agenti nel paese dei Cananei per studiarne l’orografia e il carattere della popolazione. E Giosuè inviò due spie a Gerico per osservare e riferire, e grazie all’intervento di Raab, prostituta di buon cuore, la missione andò in porto. E se viene spontaneo tracciare una linea diretta fra le attività, diciamo così informative, dei Patriarchi e il Mossad, ritenuto universalmente uno dei più efficienti servizi segreti di ogni tempo, non si debbono dimenticare L’arte della guerra del cinese Sun Tzu (V secolo avanti Cristo) e il quasi contemporaneo Artashastra del consigliere del re indiano Chandragupta Maurya.
Spionaggio e controspionaggio costituiscono attività connaturate all’idea stessa di comunità. Raccogliere informazioni può rivelarsi essenziale per la sopravvivenza di uno Stato, così come impedire che potenziali fonti di minaccia s’impossessino, a loro volta, di dati sensibili. Le spie, nella storia, si sono dimostrate indispensabili per prevenire attacchi, così come per seminare il panico nelle fila del nemico. Nessuna nazione, in definitiva, può fare a meno dei servizi di sicurezza e informazione.
I colori dell’intelligence è un libro che non nasconde, e anzi sottilmente rivendica, l’ambiguità della parola “spia”: un insulto, a essere benevoli, che però tanti illustri esempi letterari e cinematografici si affannano a rivalutare. Il problema di fondo è che le “nostre” spie sono dalla parte giusta, e quelle del nemico dalla parte sbagliata. Anche se entrambe, le nostre e quelle degli altri, fanno, dopo tutto, lo stesso lavoro. Quando a Tom Hanks, che nel recentissimo Il ponte delle spie di Steven Spielberg difende, contro l’ostilità generale, una spia russa, qualcuno fa notare che il suo accanimento garantista potrebbe essere considerato “antipatriottico”, lui risponde, serafico: quel russo fa la stessa cosa che facciamo noi americani. Considerazione elementare che però rivela molto del paradosso delle spie: non le amiamo, ma non possiamo farne a meno; le loro imprese ci fanno inorridire ma, al contempo, ne subiamo irrimediabilmente il fascino. Come scrivono i curatori del libro, in definitiva, l’astuzia della spia è la stessa del serpente tentatore che condusse a rovina Adamo ed Eva, e con loro il genere umano. Un’ultima riflessione: le spie americane e inglesi sono spie orgogliose, difendono ideali nei quali credono fermamente, e anche se devono affrontare, oltre al nemico di turno (i russi, i nazisti, il terrorismo) gli eterni burocrati e l’insidioso avversario interno, alla fine la forza dei valori che incarnano li rafforzerà nelle proprie certezze, preservandoli dal tarlo del dubbio. Niente di tutto questo nell’immaginario italiano, dove mancano un eroico Michael Caine o un gagliardo Bond, e dei servizi si dà un’immagine o fosca e complottista, o di commedia (Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli, Italian Secret Service di Luigi Comencini).
Chissà se questa “intelligente” operazione culturale contribuirà a migliorare i sentimenti di noi italiani verso le spie di casa nostra. Troppe cupe pagine della storia recente hanno alimentato una diffusa diffidenza. Dal “dossieraggio” del Sifar di De Lorenzo alla vicenda dell’uranio nigerino, passando per la strage di Piazza Fontana, Gladio, il ruolo della P2 nei cinquantacinque tremendi giorni del sequestro di Aldo Moro e la “strategia della tensione”, non c’è mistero italiano sul quale non si sia allungata l’ombra del sospetto sull’operato, quanto meno, di branche deviate dei servizi.
E persino i più minimalisti, quelli portati a liquidare con una scrollata di spalle l’idea stessa di “mistero”, non potranno cancellare il “Primo rapporto sul sistema di informazione e sicurezza” redatto nel 1995 dal Comitato parlamentare di controllo all’epoca presieduto da Massimo Brutti. Un formidabile documento storico e politico che elenca quattordici casi di deviazioni giudizialmente accertate negli anni della prima Repubblica.
Fatti, e non fantasie. E dunque, in attesa di potersi fidare, fra un sorriso, una vignetta e un brivido, molti la pensano ancora come il Sam Peckinpah di Osterman Weekend: «la verità è una bugia che non è stata scoperta».