Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 14 Giovedì calendario

Con le elezioni di sabato Taiwan deciderà se dire addio al Kuomingtang e alla Cina

Taipei L’ultimo sondaggio dice che tra i 23 milioni di abitanti di Taiwan si considera cinese il 3,3% (erano il 43,9 nel 1991); si definisce solo taiwanese il 59% della popolazione; taiwanese e cinese insieme il 33,7%. «Siamo in guerra civile sulla nostra identità», ci dice Yachung Chang, politologo e docente all’università di Taipei. E spiega: «Questa guerra civile riguarda il nostro sentirci taiwanesi o cinesi e il futuro dell’isola: riunificata alla Cina, indipendente o ancora governata dal cosiddetto status quo di nazione non riconosciuta come Stato». Ma questa guerra civile identitaria finirà sabato con le elezioni, se come sembra sicuro vincerà e diventerà presidente la signora Tsai Ing-wen del Dpp, il Partito democratico popolare che ora è all’opposizione e ha nel programma l’indipendenza formale di quella che Pechino chiama immancabilmente «la provincia ribelle». E dopo? «Si riaccenderà una guerra civile politico-diplomatica e commerciale con la Cina», prevede Chang.
Per capire di che cosa parla il professore bisogna andare al Villaggio Militare 44 Sud di Taipei. Un agglomerato di baracche costruite per i militari, i funzionari e le loro famiglie fuggiti dalla Cina con Chiang Kai-shek nel 1949, quando i nazionalisti del Kuomintang furono sconfitti dall’esercito comunista di Mao Zedong. Furono costituiti 900 villaggi militari in tutta l’isola, dovevano essere provvisori in attesa della rivincita e del ritorno sul continente cinese. Ma oltre 600 mila persone ci hanno vissuto per mezzo secolo e quell’esistenza gomito a gomito in baracche, una stanzetta per famiglia, bagni e cucine in comune, mantenne viva la memoria cinese dei fuggiaschi. Oggi quei piccoli quartieri sono stati quasi tutti spianati per far posto alla nuova edilizia, i reduci dispersi o morti di vecchiaia. Al posto del Villaggio 44 Sud c’è il 101, il super grattacielo da 508 metri simbolo di Taipei. Nelle tre baracche conservate e trasformate in museo-memoriale ora restano poche cose di quelle famiglie: valigie di cartone, piccole perché i rifugiati si illudevano di poter presto tornare a casa in Cina; lampade da tavolo montate su gusci di granate inesplose, pentole per cucinare piatti delle province cinesi perdute.
Su una parete la trascrizione dei versi di un poeta soldato, Yu Kwang-chung, nato a Nanchino nel 1928, arruolato nell’esercito nazionalista e profugo a Taipei. «Quando ero piccolo la nostalgia era un francobollo piccolo piccolo, io da questa parte e mia madre dall’altra. Quando sono cresciuto la nostalgia era un biglietto di piroscafo stretto stretto, io da questa parte e la sposa dall’altra. E poi la nostalgia è diventata una tomba bassa bassa, io fuori e mia madre dentro. E adesso la nostalgia è lo stretto col mare basso basso, io da questa parte, il continente di là». La poesia è popolare e amata anche a Pechino.
Tutto sommato questa nostalgia cullata dalla gente del Kuomintang per decenni ha fatto anche il gioco di Pechino. Nel 1992 «le due parti dello stretto», come amano definirsi, hanno sottoscritto una dichiarazione di consenso sull’esistenza di «una sola Cina». Poi, negli ultimi otto anni, il Kuomintang ha condotto una politica di rapido riavvicinamento economico con Pechino, culminata lo scorso novembre con il primo storico incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e il taiwanese Ma Ying-jeou, giunto a fine mandato. I due si sono salutati chiamandosi «rispettato signore», Ma Ying-jeou ha rivendicato i 23 accordi firmati dal 2008, lo scambio di 40 mila studenti e di 8 milioni di turisti all’anno, i commerci bilaterali arrivati a 170 miliardi di dollari l’anno. Perché cambiare? Xi ha detto che «i popoli delle due sponde dello Stretto sono una sola famiglia, i fratelli sono sempre legati dalla carne, anche se le ossa sono fratturate»; Xi però dice che la questione del rientro di Taiwan nella grande Cina non può più essere rinviata alle future generazioni. Un monito serio alle ambizioni indipendentiste della signora Tsai e all’esito di quel sondaggio che dà i cinesi di Taiwan quasi estinti, al 3,3 per cento.
Tutti i sondaggi indicano che il Kuomintang sabato perderà la presidenza, sia a causa del rallentamento dell’economia taiwanese, che viaggia ormai intorno all’1% di crescita, sia per l’eccessivo abbraccio alla potenza commerciale della Cina del capital-comunismo. Il Kuomintang potrebbe perdere anche la maggioranza nel parlamento di 113 seggi. Il partito è tanto in difficoltà che a ottobre ha improvvisamente cambiato candidato alla presidenza, convincendo a scendere in campo il segretario Eric Chu.
Davanti al grande arco d’accesso alla spianata del Mausoleo di Chiang Kai-shek un anziano attivista del Kuomintang ripete al megafono: «Non dimenticate tutto quello che è stato costruito; non siate egoisti, non distruggete il ponte dopo aver attraversato il fiume». I visitatori nella piazza sono tanti, molte scolaresche. Ma non vanno a rendere omaggio al generalissimo nazionalista la cui statua è collocata in cima a una gradinata, sotto una pagoda di marmo. Si fermano per entrare in un tendone azzurro ghiaccio piazzato proprio ai piedi dell’edificio che dovrebbe celebrare l’identità nazionale: ospita una mostra su «Frozen», il film di Disney. Curioso collocare un padiglione che fa pubblicità a una favola davanti al tempio di Chiang Kai-shek. Ma ormai anche l’epopea del generale che resistette ai giapponesi e fu sconfitto da Mao è vissuta come un’illusione lontana.