Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2016
Il gioco al ribasso del greggio è sfuggito di mano ai sauditi
Chi sta pagando caro il greggio a basso costo?
Al di là delle centinaia di milioni di automobilisti europei e nordamericani,e dei Paesi che il petrolio lo consumano per usi civili e industriali senza produrlo, tutti gli esportatori mondiali – chi più chi meno – stanno vivendo un periodo molto difficile.
La gran parte dei produttori punta il dito contro l’Arabia Saudita. Rea,ai loro occhi,di aver orchestrato la discesa verticale del barile per interessi privati. Quando, nel novembre 2014, Riad fece prevalere la sua linea in un vertice dell’Opec, la sua decisione di mantenere invariata la produzione si traduceva in realtà in un “liberi tutti” a produrre quanto più potevano. I sauditi lo fecero – decisione riconfermata all’ultimo vertice di Vienna lo scorso dicembre – per tre motivi, uno ufficiale,due inconfessati ma noti:la ragione ufficiale era mantenere la quota di mercato. A tutti i costi.Le altre due, dichiarare guerra all’industria americana dello shale oil e mettere in difficoltà i suoi rivali, in prima linea il nemico storico, l’Iran, ma anche i suoi alleati come la Russia.
Ora il petrolio a basso costo sta mettendo in crisi i bilanci di molti dei maggiori Paesi esportatori di greggio alle prese con continui tagli dei loro budget e deficit di bilancio sempre più abbondanti. Soprattutto quelli dei Governi – in verità quasi tutti regimi o monarchie – poco virtuosi, o poco avveduti,che non hanno fatto nulla, o hanno fatto davvero poco, per guarire la loro economia dal morbo della petro-dipendenza (diversi Paesi Opec ricavano dalle vendite di greggio il 90-95% delle loro esportazioni). Nigeria, Angola, Iraq e Libia (questi ultimi due alle prese peraltro con costosissime guerre) sono in grandi difficoltà.
Il gioco di far precipitare i prezzi – ma fino a un certo, sostenibile livello – sembra tuttavia sfuggito di mano.Chi dei Paesi membri dell’Opec non guarda con profonda nostalgia agli anni delle “vacche grasse”, quando la media annuale del Brent era 111 dollari al barile,nel 2011 e 2012,108 dollari nel 2013,e 99 nel 2014?
In quei tempi non lontani il denaro veniva sperperato, le dolorose riforme strutturali rinviate, fiumi di petrodollari gettati in un welfare all’araba fatto di regalie e generose donazioni volte a placare il malcontento popolare ed evitare che il vento delle primavere arabe travolgesse anche le monarchie del Golfo.
Se nel 2015 le compagnie americane di shale oil sono riuscite in parte a reggere il colpo,rivelandosi efficienti, e riuscendo a produrre anche con il barile a 45-50 $, il quadro ora sembra cambiato.Secondo un recente rapporto della Federal Reserve di Dallas,sono almeno nove quelle che, nel 4° trimestre 2015, hanno fatto richiesta di bancarotta, per un totale di debito di oltre 2 miliardi. E se le cose andassero avanti di questo passo – come l’andamento dei mercati suggerisce – diverse altre seguiranno a ruota.
Il problema è che sul cheap oil pesa un cocktail di fattori difficili da annullare.Il rallentamento dell’economia cinese si rifletterà in una crescita più lenta dei consumi mondiali. Lo stesso si può dire per altre economie.Il tutto, peraltro, avviene in un periodo in cui c’è un eccesso di produzione sui mercati e le scorte dei Paesi consumatori sono a livelli record. Quelle commerciali americane,solo per fare un esempio, sono superiori di ben 120 milioni di barili rispetto alla media degli ultimi 5 anni.
Se dall’economia si passa alla geopolitica,il quadro non è certo rassicurante. Il crollo del barile provocherà quest’anno un deficit di bilancio di circa 100 miliardi di dollari nelle casse di Riad. Ma i sauditi hanno riserve valutarie e assets superiori ai 700 miliardi. Preferiscono vedere il petrolio a basso costo ma, al contempo,cercare di dare la spallata finale (sempre sia possibile) all’industria Usa dello shale oil, che necessita di prezzi mediamente di 45-55 $ per mantenere la produzione sostenibile e arrecare un danno ingente a Teheran: con le due potenze regionali del Golfo mai così vicine a un conflitto. Lo spettro dell’eccesso di offerta rischia di incombere sui mercati ancora a lungo. Se poi verranno tolte le sanzioni,Teheran non esiterà a immettere sui mercati più petrolio pur di rimpinguare le sue casse. Se le ultime stime, rilasciate ieri dal Dipartimento americano dell’Energia, si avverassero, c’è poco da stare allegri: per il Brent una media di 40 dollari nel 2016 e 50 nel 2017. Certo il petrolio a basso costo non durerà per sempre. A ogni crollo storicamente segue un rimbalzo. Ma quando?