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 2016  gennaio 13 Mercoledì calendario

Come imparammo a sorridere

Se si dovesse rappresentare con un segno i mutamenti delle espressioni facciali di fronte all’obiettivo – dalle pose compunte dei primi ritratti fotografici alle istantanee sfrontate dell’era del selfie -, il segno rivelatore sarebbe una curva. Non la curva di un grafico. La curva del sorriso. A tracciarla, con un metodo pionieristico, è stato un team della Berkeley University, in California, guidato da Shiry Ginosar, ricercatrice in computer vision.
Ginosar e compagni hanno cominciato con il raccogliere e digitalizzare 150 mila immagini dagli album dei licei americani, dal 1905 a oggi. Tra queste, hanno selezionato 37 mila foto, i ritratti frontali degli studenti. Quindi hanno diviso i ritratti per decade e sovrapposto le foto al computer per ottenere il «viso medio» che caratterizza ciascun periodo.
Dallo studio emergono intriganti dati antropologici e di costume, dai corsi e ricorsi nella moda alla confidenza dei ragazzi davanti alla macchina fotografica, fino alle acconciature. Ma l’aspetto più interessante riguarda proprio l’espressione più complessa: il sorriso. Stretto, impercettibile, nei ritratti d’inizio ’900; largo, con i denti in mostra e diversi muscoli del viso coinvolti, in quelli del 2010. Diverse erano anche le istruzioni date dai fotografi sulle parole da pronunciare al momento dello scatto: da «prunes» (prugne) a «cheese» (formaggio).
L’allargamento del sorriso sembra seguire un corso cronologico. Negli anni i sorrisi femminili si allargano più di quelli degli uomini. Il team ha sviluppato un algoritmo per determinare il grado di curvatura delle labbra nelle foto e questo mostra una tendenza del sorriso a crescere d’intensità e ad arrivare fino agli occhi. È il «sorriso di Duchenne», che prende il nome dal neurologo francese che l’ha individuato, e comporta la contrazione sia dei muscoli zigomatici sia di quelli intorno alle orbite oculari.
Lo studio non è il solo a occuparsi del sorriso. Nel progetto su Internet Selfiecity vengono messi a confronto gli autoscatti in cinque metropoli: New York, San Paolo, Berlino, Mosca e Bangkok. Ognuna è contraddistinta da uno stile di selfie. E da un modo di sorridere. La capitale russa, almeno negli autoritratti, risulta la città meno sorridente; invece nella brasiliana San Paolo sono i sorrisi femminili ad impennarsi, mentre quelli degli uomini stentano. A New York sono pochissimi i maschi a sfoggiare un sorriso di Duchenne, al contrario delle donne. Berlino è la metropoli dove i rapporti tra i sorrisi dei sessi sembrano più equilibrati.
Ma è reale l’evoluzione del sorriso descritta dall’algoritmo di Ginosar e lo sono le variazioni nello spazio rintracciate da Selfiecity? Riguardano le persone o il loro rapporto con il mezzo fotografico? Secondo lo psicologo americano Paul Ekman, che ha compilato una casistica delle espressioni facciali umane, dal felice allo spaventato, queste, in realtà, non cambiano molto nelle diverse culture. Un guerriero di una tribù della Papua Nuova Guinea sorride più o meno allo stesso modo di un impiegato di banca di Milano.
Michael Graziano, neuroscienziato a Princeton, ha invece inseguito l’origine del sorriso fino ai nostri progenitori. Nei primati il mostrare i denti lancia un segnale di paura o aggressività. Che si sarebbe evoluto in un segno di sottomissione verso un membro del gruppo considerato superiore. E che sarebbe stato usato dai nostri antenati – sostiene Graziano – come uno strumento di manipolazione sociale.
L’indagine sul sorriso, comunque, resta una delle più difficili, nella scienza come nell’arte. Tra il sorriso di cortesia e quello di Duchenne ci sono migliaia di sfumature, dall’increspatura enigmatica della Gioconda al ghigno che nasconde pugnali nel «Macbeth» di Shakespeare. E altre variazioni si potrebbero aggiungere nel futuro grazie ai tentativi di riprodurre il sorriso sui volti dei robot. Uno degli ultimi esemplari di creature sorridenti è Han, prodotto dalla Hanson Robotics e presentato al Pioneers Festival di Vienna, come «il più umano dei robot al mondo».
Più empatico, però, sembra Diego-San, il robot con le sembianze di bambino, impiegato in un test dell’Olin college e delle università di Miami e San Diego: il suo sorriso è stato studiato sul modello di quelli che i bambini manifestano per provocare la risposta delle madri. Il sorriso robotico è riuscito a massimizzare la reazione. Ma è stato giudicato allo stesso tempo inquietante.